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R Recensione

6,5/10

Binker & Moses

Journey To The Mountain Of Forever

Dalla prospettiva dei turnisti, per certi versi, si vede e si sente meglio: fuori dalla gestione e dalle responsabilità di una band “tradizionale” la ricettività verso gli input esterni aumenta a dismisura. Trucchi e segreti di chi suona con e per decine di musicisti diversi. Ecco come i londinesi Binker Golding e Moses Boyd escono allo scoperto e danno continuità alla loro produzione autografa: producendo, nell’anno di Colin Stetson, Kamasi Washington, Greg Fox, Thundercat e Craig Taborn (giusto per citare i primi nomi di lusso saltati alla mente), nientemeno che un doppio disco. Un’impresa fededegna, che ha pur sempre il suo significato relativo – scriviamo nell’epoca dei “The Epic” e degli “In The Moment”, è bene ricordarselo –, ma che assume maggiore spessore allo specificare alcuni ulteriori dettagli. Primo: “Journey To The Mountain Of Forever” è in realtà il sophomore del precedente “Dem Ones”, uscito appena un anno fa. Secondo: l’intero pacchetto (6+9 tracce, oltre un’ora e venti) è stato registrato, in presa diretta, in appena due giorni (!). Terzo: la prima metà (“The Realm Of Now”) vede alle prese i soli Binker e Moses, mentre nella seconda (“The Realms Of The Infinite”) il dialogo tra sax tenore e batteria viene arricchito da numerosi interventi esterni (l’arpa di Tori Handsley, la batteria aggiuntiva di Yussef Dayes dei discioltisi Yussef Kamaal, le tablas di Sarathy Korwar, la tromba di Byron Wallen e pure Sua Maestà Evan Parker).

L’aspetto più interessante dei brani di “The Realm Of Now”, com’è facilmente comprensibile, sta nel serrato e minimale interplay tra i due protagonisti. Se il batterismo di Boyd ha un’impronta molto definita, una groove machine che dal funk di un Joe McPhee perviene ai poliritmi attravrso ?uestlove, è il taglio melodico di Golding a sorprendere: pulito e chirurgico nel fraseggio, tutto sommato sobrio nel solismo, con i santini di John Coltrane, Sonny Rollins e Wayne Shorter nel taschino. “The Departure” è certo un ottimo biglietto da visita, ma a colpire maggiormente sono altre composizioni: le sincopi black di “Intoxication From The Jahvmonishi Leaves” (dove non si percepisce un vuoto che sia uno, a dispetto dei misuratissimi equilibri di line up), il bebop progressivo con vista colemaniana di “Trees On Fire” e i tropicalismi bandistici di “Fete By The River” (con modulazione del riff portante su altezze differenti, escamotage certamente assorbito da “A Love Supreme”), prima che il cerchio si chiuda con le esplorazioni sistoliche di “The Shaman’s Chant” e le solenni cadenze cannabinoidi di “Leaving The Now Behind”.

Dal less is more al more is less è un attimo, ma “The Realms Of The Infinite” ignora l’aneddotica e si prende il lusso di inaugurare le danze con un pezzo come “The Valley Of The Ultra Blacks”, una versione ipercinetica e liofilizzata, intrappolata in una giungla di percussioni, del Kamasi più stroboscopico. Pur accettando di prendersi qualche rischio supplementare, l’estetica del disco è estremamente chiara e si rifà, affatto nascostamente, agli intensi e pittoreschi cromatismi della curiosa copertina: accade infatti di tutto, tra i disarticolati intrecci di tenori in “The Voice Of Besbunu” (la cosa più vicina al free jazz dell’intero doppio, assieme ad una “Reverse Genesis” ampliata a tromba e batteria ma, purtroppo, rimasta abbastanza insoluta), Dave Douglas e Milford Graves che risorgono in “Entering The Infinite” e, soprattutto, quei sentori di misticismo psych che si affacciano già nell’intenso madrigale etno di “Gifts From The Vibrations Of Light” e che, nel prosieguo, ricorrono ancora in “Echoes From The Other Side Of The Mountain” (l’arpa che si fa koto, il sax come primadonna sul proscenio di un melodramma world) e, soprattutto, nelle rarefazioni di “At The Feet Of The Mountain Of Forever” (scampoli di elegie ultraterrene dai mercati a cielo aperto di una Dušanbe non connotata temporalmente, o della new age a contatto con l’hard bop).

Non è il capolavoro che è stato spesso spacciato in giro, ed è un po’ troppo lungo per coinvolgere pienamente, ma appuntatevi questo nome nel vostro miglior taccuino: ne sentirete riparlare prima di quanto crediate. 

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