James Brandon Lewis
An UnRuly Manifesto
Già da qualche anno si osserva una ben curiosa tendenza: nello stesso periodo in cui la neve precipita in grossi fiocchi e ammanta le strade, i dischi jazz si distribuiscono a pioggia su migliaia di playlist e classifiche in giro per il mondo. Il pattern è ricorrente al punto che dopo un po è inevitabile chiedersi, data anche la natura ontologicamente scettica del nostro tempo, dove la legittimità di giudizio ceda il passo alla moda del momento, dove la qualità oggettiva sfoci nelladeguamento allo standard dominante. Rispondere in maniera univoca non è semplice, molte volte nemmeno possibile. Si può comunque azzardare con relativa sicurezza una replica generale: come fra tante sindromi dellimpostore si intrufola qualche impostore vero, così, a monte di una qualità media delle uscite jazz alta se non molto alta (un Risorgimento impensabile anche solo sino ad una decade fa, sul quale occorrerà prima o poi intavolare un serio discorso teorico), scappa fisiologicamente qualche titolo incensato ben oltre i suoi effettivi meriti. Non è certo il caso del terzo full length del quintetto guidato dal sassofonista James Brandon Lewis, An UnRuly Manifesto, che al contrario esemplifica al massimo della forma le sconfinate possibilità del jazz contemporaneo.
Introdotto da un raccolto warmup esplicitamente dedicato alla rivoluzione stilistica dellOrnette Coleman di The Shape Of Jazz To Come (Year 59: Insurgent Imagination) e segmentato da intermezzi tematici dalla funzione coordinatrice (la sonatina cool di Pillar 1: A Joyful Acceptance, la smooth big band di Pillar 2: What Is Harmony?, lepilogo trionfante di Pillar 3: New Lived, Authority Died), An UnRuly Manifesto è un passionale atto damore verso una tradizione di genere che, alle prese con le spietate sfide della contemporaneità, adotta una duplice strategia evoluzionistica di conservazione formale e radicale rinnovamento contenutistico. Si tratta, comè evidente, di unoperazione intimamente politica, che rispetto ad uno dei suoi più prossimi ed illustri predecessori (la Gesamkuntswerk del Kamasi Washington di The Epic) propone una scrittura più densa ed oscura, ricca di anse e dedali, meno esplicitamente piana ed esuberante. Nei quasi dodici minuti della title track, appoggiandosi sul sottile e metronomico riff noir intonato dalla chitarra di Antony Pirog (The Messthetics), i fraseggi sanguigni del sax di Brandon Lewis si intrecciano con la tromba rugginosa di Jaimie Branch, intessendo le trame di un racconto lungo bop che sfuma su di una coda eterea i cui preziosismi melodici, immersi in uno spazio senza tempo, fanno dialogare Africa nera e Scandinavia. Non si tratta di un episodio isolato: in The Eleventh Hour, costruita su una stringa di plastici arpeggi chitarristici, il solismo crepitante di Branch viene contrappuntato dapprima dal basso elettrico di Luke Stewart (grande interplay), poi dai sofisticati coltranismi del bandleader; ancora Stewart si esibisce, in virtuosistico spolvero, sulle contratture fusion-funk di una Sir Real Denard ridotta quasi a puro groove, senza ulteriori necessità armoniche; e per converso lestatica inquietudine di Haden Is Beauty, un dolente stornello blues in libertà dove Pirog fa le veci del miglior Albert Ayler, esalta la strepitosa coesione della band, corpo unico anche nei frangenti più dislocati.
Ci trovassimo ancora ad inizio decennio, ci limiteremmo a segnalare questo manifesto di esplosiva creatività ad un pubblico selezionato di appassionati, certi di incontrare il loro favore: ma le categorie di fine decennio sono divelte dallinterno e le distinzioni comunicative più che mai sfumate. Si intenda pertanto linvito dellascolto in senso quantomai inclusivo.
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