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R Recensione

7/10

Cuong Vu 4tet

Change In The Air

Attivo da più di vent’anni come leader di un trio capace di inanellare una serie di importanti incisioni su etichette di lusso (Avant, Knitting Factory, Cuneiform…), il trombettista Cuong Vu si è definitivamente imposto all’attenzione del pubblico generalista un paio d’anni fa, con un bel disco per Nonesuch registrato in compagnia della chitarra di un Pat Metheny nell’occasione meno ingessato del solito (“Cuong Vu Trio Meets Pat Metheny”). L’incontro di per sé non rappresentava una novità, sia perché Vu aveva già fatto parte della backing band di Metheny tra il 2002 e il 2005, sia perché la sei corde – sebbene quasi mai in pianta stabile – è elemento dialogico ricorrente nella scrittura del jazzista di Seattle. Tra gli interlocutori prediletti spicca nientemeno che Bill Frisell, con il quale Vu – dopo l’estemporaneo “It’s Mostly Residual” (2006) – ha deciso di pianificare una collaborazione a lungo termine, che preveda la presenza del chitarrista in pianta stabile nella line up. A strettissima distanza dall’ottimo “Ballet: The Music Of Michael Gibbs”, spumeggiante album-tributo al compositore statunitense, arriva ora il disco di inediti vero e proprio, “Change In The Air”, costruito sulla base dell’elaborazione di contributi personali di ogni membro.

La scelta di un titolo così ambivalente non può non sollevare qualche interrogativo – la cronaca quotidiana ci insegna che più vengono tirate in ballo metafore di cambiamento e meno benevole sono le intenzioni che le animano. Ça va sans dire, anche in questo caso il “cambiamento” fiutato nell’aria è un refolo di catastrofe, l’annuncio dell’apocalisse imminente, un inestricabile gomitolo di inquietudini e insicurezze riguardanti un futuro (politico, sociale, ambientale) che si preannuncia non meno che disastroso. Se di tensioni si parla, tuttavia, queste trovano un fedele corrispettivo formale solo in un paio d’occasioni, come nei fraseggi zoppi e singhiozzanti di una “March Of The Owl And The Bat” che arriva ad un passo dal free jazz, oppure nelle pennellate amniotiche e non consequenziali di “Round And Round” – che, nell’immediata reprise “Round And Round (Back Around)”, vengono irreggimentate in uno schema scandinavo d’astrazione assoluta. Anzi, il lirico lento jazz-blues d’apertura (“All That’s Left Of Me Is You”, discreto per quanto classicissimo, porta la firma del batterista Ted Poor), il liquido chamber noir della raccolta “Look, Listen” (con i semitoni friselliani a scombinare il commento quasi davisiano di Vu), l’elegantissimo cool jazz orchestrale di “Lately” (con il bassista Luke Bergman prestato alla seconda chitarra e l’aggiunta del Rhodes di Poor) e le armonie più levigate della ballata “Long Ago” sembrano autoimporsi, a dispetto di tutto, una moderazione assoluta del medium espressivo.

Le scintille sprizzano altrove. Vibrantissima è, ad esempio, l’esplorazione bluesy di “Alive”, dove la sei corde di Frisell spazia con gusto e fantasia lungo uno scibile americano di almeno sette decadi e la tromba di Vu – spalleggiata da una sezione ritmico in grande spolvero – ne contrappunta gli spunti con estro à la Drift. Particolarmente prezioso è l’unico contributo di Bergman, “Must Concentrate”: tra gli interstizi di una sequenza di accordi bossa il solito Vu capitalizza un afflato melodico di respiro jagajazzistico, prima che il gruppo torni poi a suonare come un solo corpo in un’illuminante ascensione jazz rock. È infine toccante, ma leggermente inquietante per le percepibili ombreggiature degli intervalli in minore (riconoscibilissima la mano di Frisell), il tema decostruito della conclusiva “Far From Here”: un anelito di libertà, forse, o l’utopica speranza per un futuro diverso, migliore.

Vi sfido ad accorgervi del trascorrere del tempo: l’interplay è così fluido e naturale che perdersi nelle trame strumentali dei musicisti in azione è un attimo. Atarassia estetica indotta o piacevole effetto collaterale? Fuori, intanto, l’aria si colora già di una sfumatura diversa.

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