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R Recensione

7,5/10

Sao Paulo Underground

Cantos invisiveis

La quinta opera del trio multietnico São Paulo Underground, inafferrabile creatura partorita dalla poliedrica mente di Rob Mazurek è una bella sfida per l’ascoltatore. Il titolo dice già molto, con quella dedica ambigua agli angoli invisibili / canzoni invisibili, allusione ad una musica che gioca a nascondere nella propria ragnatela avvolgente, scampoli melodici, frammenti di improvvisazione jazz, canti etnici, per poi smentirli immediatamente dopo, lasciando libero spazio ad una architettura psico elettronica totalizzante. 

Cantos Invisiveis” sembra una delle possibili rappresentazioni in musica fra razionalità e sentimento, condotta con inarrestabile energia e spinta creativa ed uno spirito che esalta la dimensione collettiva dell’ensemble, con Mazurek i soliti Mauricio Takara e Guilherme Granado qui affiancati  dalla presenza del musicista svizzero, ma adottato dal Brasile, Thomas Rohrer. A confronto con le precedenti uscite, dove prevaleva una dimensione ritmico elettronica alimentata dal triablismo percussivo e dalle alchimie timbriche di Mazurek e co., questo disco è immerso in un clima straniante, una sorta di labirinto di specchi  sonoro nel quale inizialmente si fatica ad orientarsi, tante e tali sono le suggestioni che colpiscono i sensi dell’ascoltatore. Come interpretare un pezzo come Estrada Para o Oeste che si apre su una semplice, quasi cameristica melodia per diventare presto pathwork di rumori e suoni elettronici, e trasformarsi verso il finale in una trance percussiva condotta dalla tromba di Mazurek e quindi in un canto liberatorio ? Come immaginare che dietro le iniziali cortine ambient di Cambodian Street Carnival si celi un ammaliante canto etnico senza parole condotto su una superficie di scintillanti campanelli ? Cos’è invece “Lost corners boogie”? Una variazione free in chiave elettronica affidata a synth fuori registro? E perché diventa ad un certo punto una marziale marcetta slabbrata e malferma? 

Le domande potrebbero continuare ancora per ciascuno dei pezzi in programma, e la ricerca di un filo conduttore diverso da quelli citati appare quanto mai ardua, considerando tutti gli elementi in gioco. Ad un certo punto però arriva un pezzo intitolato “Olhaluai” e qui tutto si ferma. Perché all’istante si viene trasportati in un’isola di qualche oceano sperduto, dove gli abitanti hanno allestito una festa per noi, ci accolgono felici, e la loro musica  dall’andamento quasi rituale, stavolta priva di elettronica ma costruita con tanti piccoli strumenti a corda, una tromba, il battito delle mani ed un canto circolare, ci avvolge e conquista senza possibilità di resa. C’è ancora tanto altro negli angoli invisibili di Sao Paulo, la ballad “Of Golden Summer,” dove la tromba del leader concede doni melodici su un tessuto screziato dall’elettronica, o la saga  finale di Falling Down From the Sky Like Some Damned Ghost” - sedici minuti che ospitano un convulso elettro funk innervato di elettronica, una sezione corale e caotica  ed un finale che declina lentamente fra rivoli elettronici e concise farsi della tromba - ma quel pezzo si fissa al centro della memoria quasi fosse una boa di riconoscibile conforto in un mare sconosciuto, ricco di sorprese e di incognite. A voi scegliere come affrontarlo, se affidarvi ad una zattera e sfidare le onde, o tenere sempre a vista la riva. In ogni caso, l’avventura è assicurata.

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Marco_Biasio alle 12:08 del 28 ottobre 2016 ha scritto:

Ne conservo ancora un ricordo fantastico da un concerto patavino di ormai sette anni fa. Mazurek è un personaggione, ma tutto il gruppo è davvero speciale. A giorni tornerà a Padova con un altro ensemble, e chi se lo perde? Bella segnalazione (certo che star dietro a tutto...).