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R Recensione

8/10

Angles 9

Disappeared Behind The Sun

Dato che la musica – specie jazz – è un po' come il cibo, vale anche nel suo caso la regola per cui assommare troppi ingredienti rischia di provocare un'indigestione.

Ecco perché, dal mio modesto punto di vista, il jazz orchestrale contemporaneo scivola spesso e volentieri verso il caos onanistico. Io adoro il caos, sia chiaro, ma solo se ci sento dentro un'urgenza espressiva (perdonate il ricorso a questo brutto concetto).

Diversamente, persino un jazzofilo radical chic come il sottoscritto storce il naso. Non tutti si chiamano John Coltrane e riescono a sollevare il soffitto con 40 minuti di improvvisazione senza annoiarti. Non tutti sanno scrivere non dico le complesse sinfonie a più voci di Ellington e Mingus (la roba di cui parleranno nelle scuole di musica fra 100 anni, riferendosi al '900), ma anche “solo” gli intricati incastri di Carla Bley o di Charlie Haden. Tim Berne è un altro gigante della musica contemporanea di cui si parla sempre troppo poco ed è un altro termine di paragone insostenibile.

Ecco, in un contesto così elitario, costellato da nomi e da lavori troppo lontani dai comuni mortali, sono felice di aver scovato gli Angles 9 capitanati dell'altosassofonista svedese (sulla cinquantina) Martin Kuchen.

Jazz con un'anima, dicevo, e vi assicuro che lo facevo senza retorica: il nonetto nordico si riallaccia alla lunga e vasta tradizione di improvvisatori radicali cresciuti dalle parti di Ingmar Bergman (un banalissimo nome per tutti: Jan Garbarek).

Ecco, visto che noi recensori non sappiamo fare altro che procedere a tentoni aggrappandoci a qualche paragone altisonante, arrivo al dunque: Kuchen e i suoi (corni e legni sono in prima fila, dietro si muove una sessione ritmica “pesante” e ibrida, con un batterista stregato dall'hipster metal e un bassista decisamente “in carne”) prendono in parte le distanze dalla tortuosa complessità concettuale di Coltrane e dei suoi adepti nordici. Lo scavo armonico diventa meno arzigogolato. Ciononostante, rimane qualche assonanza con Garbarek (e con lo stesso Trane) in termini strutturali, se parliamo di idee globali: Kuchen conia la sua versione dell'africanismo svedese, accostando pianeti fra loro sulla carta distantissimi (si veda a tal proposito "I Took Up the Runes" di Garbarek, al crocevia fra Norvegia popolare e africa nera).

Il nonetto scolpisce bozzetti di estrema semplicità (come Trane che architettava l'intero edificio di “A Love Supreme” sfruttando mattoncini di tre note, come Komeda che scopriva combinazioni bizzarre dentro semplici frasi popolari balcaniche) e ci scova dentro l'impossibile. Se le strutture basilari sono ai limiti dell'elementare, l'iterazione fra gli improvvisatori non lo è. Estrae ogni possibile umore da ogni successione di frasi e di accordi.

Questa è musica ad alto tasso di urgenza drammatica: sposa il concettualismo nordico, la sua passione per l'improvvisazione intesa come esperimento che indaga i rapporti fra melodia e rumore, con una propulsione ritmica africana. La scelta dei temi riflette questa ambivalenza: “Love, Fly Thee House” ha un che di ispanico e di assolato, specie nell'intenso solo del sax tenore (tanto che i paragoni con “Liberation Music Orchestra” possono sprecarsi). Altrove si colgono le microvariazioni tonali della musica araba, e non mancano (ancora Garbarek!) accostamenti arditi fra architetture scandinave e arie mediterranee.

Sassofoni e tromba reggono e disegnano melodie, temi, botta e risposta. Alternano spunti corali e digressioni solitarie: ascoltare per credere i due lunghi solo (il primo di una tromba tanto rarefatta da farsi wheeleriana, il secondo di un sassofono di impressionante forza post-coltraniana) della title-track, degni dei grandi momenti della musica jazz, accompagnati da un pianoforte puntellato ed eccentrico. Batteria e basso non sono meno importanti per l'estetica del disco: si muovono all'interno del perimetro di una sorta di atipico funk pesante e letteralmente trascinano il ritmo oltre il classico swing. Questa è musica che sembra bruciare, alla faccia delle solite considerazioni circa l'intellettualismo fine a se stesso sbandierato da molto jazz moderno.

Credo serva un po' di tempo per assimilare un'opera di questa natura, interessante e originale anche per le tematiche che si propone di affrontare: il titolo allude alla condizione dei detenuti posti in isolamento, in particolare nei paesi del medio oriente. Il candore e la naturalezza della dedica sembrano quasi fisicamente percepibili: Kuchen e amici non predicano nero su bianco, ma – come tutti i grandi – forniscono una meravigliosa traduzione estetica di ciò che riescono a cogliere, fotografano un mondo.

Jazz impegnato nella migliore delle accezioni possibili (e dato che ci siamo, mi sbilancio: l'introduttiva "Equality and Death" è fra le maggiori sinfonie post-tutto del jazz degli anni '10).

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Voto degli utenti: 5/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

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Utente non più registrato alle 13:06 del 19 febbraio 2017 ha scritto:

Da comune mortale, molto semplicemente, trovo questo lavoro decisamente interessante e progressivo.