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R Recensione

7/10

[Br]om

Nebula (Bel'mo)

Gli Zu teatrali e grandguignoleschi di “Bromio”, gli Zu infernali di “Igneo”, gli Zu invincibili e trivellanti di “Carboniferous”… Incredibile quanto si possa andare avanti a parlare del miglior gruppo italiano degli ultimi vent’anni senza esaurire gli spunti di riflessione, vero? Discorreremo, questa volta, dei loro tour. Anzi: di una tappa dei loro tour. La Grande Madre, la sconfinata, arcana terra russa. Non c’è stata incarnazione del power trio romano che non abbia cancellato la serenità atemporale di Matrëna e delle sue rubiconde figliolette, che non abbia congelato quegli occhioni limpidi ed innocenti in un’espressione di terrore perpetuo. L’avranno vista anche loro, i moscoviti [Br]om (…io?), quella scintilla di follia, avranno scorto quel furoreggiare espressivo, quell’incurante anticonvenzionalismo. L’avranno adocchiato, avallato, perseguito. Fatto proprio. Ruminato e finalmente espulso, all’ombra della cattedrale del Cristo Salvatore, per tutta la Piazza Rossa.

Il contralto di Anton Ponomarev è un’arma contundente, un ordigno a delinquere che esplode con regolarità imbarazzante, condensando il canonico fraseggio bebop con le slogature no wave di James Chance (teatralmente parlando, giacché c’è sempre molta posa in questa musica, le vyvichi, come avrebbe detto Stanislavskij), l’astrattismo colemaniano e le temibili abrasioni zorniane, la musica tonale e il free jazz “totale” della Grande Mela – il cocciuto protagonismo dell’ottone avvicina, e di molto, le inquietudini di “Nebula” alle ultime prove dei Gutbucket. Contestualmente, però, sarebbe fatica vana, se le secche sincopi e i melodismi in apnea del basso di Dmitrij Lapšin ma, soprattutto, il gran lavoro di Oksana Grigor'eva dietro le pelli – segnatevi questo nome: avete scoperto la nuova Maureen Tucker del jazzcore – non rintuzzassero a dovere, su traiettorie solo parzialmente pronosticabili (perché solo parzialmente composte?), il lavoro del sodale.

Nebula” non è un disco semplice e, talvolta, come nei quasi dieci minuti di “Rags”, che rantolano tra luci ed ombre senza mai lasciarsi compiutamente decifrare, un po’ eccessivo. L’interplay fra i musicisti è però devastante, e capace di far suonare con coerenza un’ardita alternanza, come quella della title track (una micidiale scheggia che condensa in meno di un minuto quanto bisogna sapere sui Borbetomagus) con l’irresistibile cabaret crossover di “Skid” (slide funk e distorsione tonitruante: i Faith No More senza Mike Patton), il tetro minimalismo di “Liquid Cold” con il perpetuo duello tra sax e basso in “Torch” (sciolto nella narrazione particolareggiata d’una spy story sotto l’apertura alare dell’aquila zarista), l’inedito Coltrane che commenta rimasugli della Lydia Lunch musa onirica per Richard Kern (“I Often Say Thank You”) con l’elettrico kazačok messo in scena in “Bedsheet”.

My skoro uvidimsja opjat’, tovarišči!

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