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R Recensione

7,5/10

Eric Revis Quartet

In Memory Of Things Yet Seen

Come al solito, si scoprono i dischi dell'anno giusto un attimo dopo aver compilato le attese graduatorie di fine anno.

"In Memory Of Things Yet Seen" è uno fra i lavori jazz più brillanti e particolari del 2014, e la mente che si colloca a monte del progetto è il contrabbassista Eric Revis, quarantasettenne che fa cose jazz importanti da quasi 20 anni.

Il suo approccio con lo strumento è quanto di meno canonico e ordinario: Devis non è solo la sezione ritmica, e tantomeno armonizza le varie anime del gruppo, ma è un concentrato incendiario di groove, ritmi fratturati e sghembi; di più: è una voce solista, un "primo violino" vero e proprio, che ha fatto tesoro delle lunghe esperienze maturate a fianco di Brandford Marsalis e di Peter Brötzmann sin da metà anni '90, perché è un mago anche nei passaggi più lenti e atmosferici.

Al suo fianco troviamo il sassofono alto Bill McHenry, fra i nomi di maggior spessore dell'universo contemporaneo, post-bopper impeccabile capace anche di un concentrato lirismo, così come di sconfinamenti in territori più affini al post-free più razionale e consapevole (Anthony Braxton); il sassofonista tenore Darius Jones, celebratissimo negli ambienti più in voga in America, per il suo linguaggio rigoroso eppure eterodosso: Jones è figlio spirituale dei vari Roscoe Mitchell & C., ma aggiunge una vena melodica più marcata. Infine, ecco il percussionista Chad Taylor, dal tocco nitido e secco, un maestro degli africanismi, capace di accelerazioni brucianti eppure limpide, un virtuoso senza limiti che frattura il tempo a diposizione in miriadi di microrganismi sempre diversi.

Tutti sono chiamati a dare il proprio contributo anche in sede compositiva. Manca il pianoforte, per assicurare all'interazione fra strumenti a fiato e beat uno spazio armonico più ampio (Revis fa tesoro della lezione che giunge dal quartetto piano-less di un fenomeno del suo strumento come Dave Holland).

Il quarto lavoro di Revis come band leader è imponente: non solo per le evoluzioni acrobatiche e trascendentali del suo contrabbasso, ma anche per la performance illuminata del batterista (un vero e proprio esploratore delle possibilità del ritmo, è quasi impossibile seguire con l'orecchio le costanti variazioni che imprime al giro di base, se mai questo esiste) e per il modo in cui interagiscono fra di loro le due voci degli strumenti a fiato. Revis progetta un lavoro e un sound che sono al contempo tradizionali e proiettati nel futuro: gli unisono dei fiati spesso esibiscono temi di ascendenza post-bop, improvvisazioni di natura "verticale", che esplorano le possibilità armoniche degli accordi, originando una sensazione di perenne attesa, una sorta di tensione apparentemente implosiva, ma che decolla in un costante crescendo.

A un certo punto però, praticamente in tutti i pezzi, i due fiati interrompono i contatti ed esplorano - ciascuno per la propria strada - la materia sonora in quanto tale, alla ricerca della massima espressività fonica: il disco si perde in ampie fratture affini al free, ma assoggettate a un controllo formale e logico più rigoroso e "studiato". La libertà progettuale, benché calcolata, è in ogni caso senza limiti, e questo consente ai due grandi talenti del sassofono di esprimersi al meglio, su tempi velocissimi, senza rinunciare a dissonanze urticanti, fraseggi cacofonici e inusuali, passaggi più cromatici e delicati.

I brani sorprendono soprattutto per la natura tattile della materia sonora, che sembra indagare l'intero arco delle espressioni umane per tradurlo in assolo fra loro giustapposti, prima di fare ritorno sui propri passi, verso un altro unisono che rilegge il tema iniziale. In tal senso, la struttura dei pezzi non si discosta troppo spesso da quella di tradizionale derivazione bop e post-bop (alternanza fra gli assolo e le parti collettive): a fare la differenza è il dinamismo brillante della performance, che sposta continuamente il registro dei pezzi, e l'abilità con cui i solisti ibridano le varie anime del sound, facendo ricorso all'intero armamentario dei trucchi del free jazz per innestarlo nello schema di fondo più razionale ideato da Revis.

La grande forza espressiva del quartetto, valutata unitamente alle sue particolarità progettuali e al carattere incendiario di tutto l'insieme, costringe a citare l'universo AACM e in particolare le asperità zigzaganti dell'Art Ensemble of Chicago, certo punto di riferimento per l'architettura complessiva del disco. Eric Revis e il suo quartetto fanno come i Mostly Other People Do The Killing, ma sono meno folli e goliardici, forse un filo più cerebrali: ma ciò che conta è che siamo davanti a un lavoro di inusuale freschezza, il cui originale impianto costringe a una convinta ammirazione.

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