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R Recensione

6,5/10

Gutbucket

A Modest Proposal

Funzionale ripasso di matematica. Partiamo dalla regola dei segni, la mini tabella a doppia entrata che ci spiega tutti gli esiti dei diversi incontri – quanto avrei voluto fossero stati scontri – fra il più ed il meno nelle quattro operazioni fondamentali. Più x meno, meno: meno x più, ancora meno; il solo modo per ottenere un più, esclusa ovviamente l’identità dei fattori, è quella di prendere due meno e moltiplicarli tra di loro. Non ricordo adesso bene perché, ma fidatevi di me. E dei bruttissimi tomi di algebra mondadoriana in circolazione.  

Bene, riconduciamo il discorso sulla retta via. Le due nuove varianti, da sostituire ai due segni, sono rock e jazz. Più o meno la stessa cosa, niente di particolarmente innovativo: lasciate pure a riposo i Monty Python. Applicando lo stesso metodo, scopriamo che rock x jazz fa jazz, idem jazz x rock: cosa fare per avere il livello dei Marshall appena più alto? Due dosi di jazz, abbiamo detto, ed ecco che invece scatta la fregatura: il risultato non cambia. Com’è possibile? Riproviamo, jazz x jazz. Uguale: doppio jazz. Nulla da fare. Ci dobbiamo proprio buttare a pesce sull’ultima spiaggia, via: rock x rock (perché, in tempo di crisi o in presunta uscita dalla tale, non ci facciamo mancare proprio niente). Jazz?!? Ancora una volta?!?  

Se le contorsioni linguistiche a cui avete appena preso parte non vi hanno dilaniato la massa neuronale, avrete di certo scoperto che qualcosa sembra non andare. Un po’ come dentro il quarto full length dei newyorkesi Gutbucket, “A Modest Proposal” (citazione da un famoso pamphlet di Jonathan Swift). Qualora il tentativo di unire i due macromondi apparisse, quando non pretenzioso, vacuo ed ampiamente raggiunto, ci pensano i dieci pezzi del disco a confermare che, onestamente, c’è di che rivedere. In effetti, l’intenzione dell’opera appare, quasi da subito, fortemente satirica, un po’ come il libello da cui prende nome. Un tentativo, a voler generalizzare pienamente, di vedere quanto si possono abbruttire melodie di prim’ordine, sfruttando la spinta propulsiva dell’apparato rock, spingendosi fino a deviare impetuosi affluenti hardcore in una miscela alquanto free e ipercinetica, che a sprazzi può ricordare addirittura il jazzcore (marca Naked City, sì, ma ad essere sinceri più Blurt e primi Zu).  

Ironicamente, il quartetto avvisa, all’interno del booklet, che “Sadly No Mellotron Was Used in the Making of This Record”, quasi a ricordarci che la loro dimensione si ancora fortemente agli anni Duemila. Nella maggior parte dei casi, però, quello di cui si sente davvero la mancanza è la spinta della chitarra di Ty Citerman, mai in grado di creare situazioni di amalgama o di aprire interessanti squarci di improvvisazione, che rimangono fermamente ancorati al solo sax e, a seguire, alla batteria. Si sente che i Gutbucket hanno un’inventiva fortemente eclettica, una solida preparazione strumentale ed una prolifica capacità di composizione: tuttavia i concetti, sia per carenza di pragmatismo che per limite tecnico di formazione, vengono spesso solo abbozzati, lasciando incompiute parecchie intuizioni al limite del geniale, come la nuvola di fuzz di “Head Goes Thud” che danza su un feroce assalto bebop, per poi perdersi in una stucchevole tirata solistica, od il noir di “Doppelgänger's Requiem”, dallo sviluppo gradevole, eppure fragile nell’effettiva mancanza di valido supporto chitarristico. Deficit, questo, che raggiunge il suo picco nella sfortunata “A Little Anarchy Never Hurt Anyone”, potenzialmente mortale, ma sorretta solo dai fiati e un po’ caracollante nei rapidi cambi di direzione, come a perdere il controllo del timone.

I margini di volontà per continuare a seguire le sorti e gli sviluppi dell’immaginario artistico del complesso, comunque, rimangono bene alti, anche in virtù di qualche episodio davvero sorprendente per caratura ed incisività. Si potrebbe citare la tirata di “Lucy Ferment?”, scatenata scorribanda free jazz che si schianta poi su un classico corrimano gitano, ma qua e là brillano di luce propria altre gemme, come la splendida parata militare di “More More Bigger Better Faster With Cheese”, ovvero una liason tra Louis Armstrong e John Zorn con finale sconnesso e traballante, o “Carnivore”, un tumulto crescente di sax, chitarra, basso e glockenspiel che colpisce dritto al bersaglio.

Lo dicono anche loro, in un improbabile klezmer in controtempo, sul finale: “Side Effects May Include”.

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Voto degli utenti: 6,5/10 in media su 2 voti.
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C Commenti

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Foxtrot (ha votato 8 questo disco) alle 14:05 del 10 ottobre 2010 ha scritto:

Lo sto ascoltando proprio ora. Gran bel disco.