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R Recensione

7/10

John Zorn

Calculus

Per l’eccitante trio jazz composto da Brian Marsella, Kenny Wollesen e Trevor Dunn John Zorn aveva composto, non più tardi di un anno fa, i brani che sarebbero andati a comporre la tracklist di “The Hierophant”: disco certo lontano dalla perfezione dei tempi migliori eppure curioso, sintesi di molte correnti stilistiche degli ultimi due decenni di ricerca zorniana ma a suo modo unico, inedito (rimandiamo alla relativa recensione per tutti i dettagli del caso). Nel mare magnum della produzione del sassofonista newyorchese avrebbe potuto facilmente costituire un gustoso unicum: invece, in una delle sue annate migliori e più prolifiche da svariato tempo a questa parte (era almeno un lustro, a tenersi larghi, che non lo si risentiva così in forma – dobbiamo ringraziare il contraccolpo del naufragio Pledgemusic?), ecco arrivare un rilancio coi fiocchi, le due lunghe suite di “Calculus”, entro il cui formato da file cards contemporanee ribollono fantasie melodiche, esplosioni dodecafoniche ed esplorazioni concrète.

Delimitato il perimetro di “The Hierophant” attorno al terreno dei tarocchi, in “Calculus” il filo rosso concettuale deborda nella numerologia. La coerenza, in fondo, non manca. La qualità nemmeno. “The Ghost Of Departed Quantities” (22:21) è, con buona approssimazione, la migliore composizione “jazz” (in senso piuttosto ampio) uscita recentemente dalla penna di Zorn. Da subito impostata su un andante pianistico in 5/8 scombinato da sequenze di istruzioni in libera uscita (ombreggiature klezmer, nervose pennellate atonali, spasmi swingati), la composizione si dischiude dapprima in un rilassato melodismo romance, virando bruscamente infine su un hard boiled dissonante e multistrato sull’orlo di una crisi – stallinghiana – di nervi. Lo schema si ripete, con interessanti variazioni, anche nella seconda metà del brano: Marsella sembra un Jarrett il cui strumento sia stato preso a sassate, un virtuoso che tra protrusioni doo-wop e percolazioni easy listening conduce il proprio trio verso un finale bifronte, tra le carezze di “Alhambra” e gli schiaffi di “Nova Express”. Alea iacta est? Nemmeno per sogno: sullo sfondo avanzano già le oscure astrazioni di “Parabolas” (19:21), aperta da una stringa pianistica a singhiozzo che corteggia l’ostico serialismo integrale di Boulez. È un pezzo che, se si escludono il momentaneo stacco piano jazz attorno a 5:30 (quasi in odore di Masada) e una coda schizofrenica in cui si mescolano brandelli di “In Search Of The Miraculous” e “Dreamachines”, non fa quasi nessuna concessione alla melodia: il tema iniziale, anzi, da subito riorganizzato in escrescenze free, si confonde poco oltre tra le maglie di un insistito galoppo ritmico, disgregandosi infine in un fosco ripiegamento ambientale.

In sintesi: se già vi è piaciuto “Baphomet”, l’imperativo morale è non perdersi questo “Calculus”. Spericolato, efficacissimo.

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