R Recensione

6/10

Lean Left

I Forgot To Breathe

Da profani, cosa vi aspettereste da un quartetto che ingloba i poderosi sax di Ken Vandermark, le due chitarre degli Ex (Terrie Hessels e Andy Moor) e le pelli di Paal Nilssen-Love (Atomic, The Thing)? Qualcosa che vi prenda al collo, vi azzanni alla giugulare, vi sbatta a terra e vi riempia di schiaffi. Che banalità da slasher di serie Z. Mi spiace per voi, ma i piani sono assai più ambiziosi: quanto lo può essere sedersi sul vostro sterno e guardarvi boccheggiare, fino al sopraggiungere dell’apnea. Poco importa che – tra dischi in studio propriamente detti e registrazioni live – “I Forgot To Breathe” sia già la settima uscita per i Lean Left: se non l’avessi aggiunto a margine non se ne sarebbe accorto nessuno. A ragione: smalto e ferocia raccontano di un quartetto che addenta gli spazi con la voracità dei primi passi e la gelida concretezza dei grandi curriculum.

Osservare dal vivo la fisicità di Vandermark, il suo continuo stato di tensione fra i trilli perforanti del tenore e i barriti del baritono è un’esperienza impagabile e catartica (chi scrive parla a ragion veduta, rievocando alla memoria il funk orgiastico e sbrindellato dei Made To Break andato in scena a Padova appena un anno fa), motivo per cui non vedo l’ora di approfittare della prima occasione utile per gustarmi il tremebondo impatto che i Lean Left devono avere sul palco. “I Forgot To Breathe”, intendiamoci, è un ottimo disco, ma – come gran parte delle produzioni del genere – soffre di due non marginali difetti, peraltro sempre gli stessi: una certa staticità dell’interplay negli episodi più autenticamente free (un conto è vederli formarsi in tempo reale, un altro limitarsi ad ascoltarne la proiezione astratta) e una difficoltà congenita nel tenere alta la barra dell’attenzione dal primo all’ultimo istante (specialmente per chi non è avvezzo a certi suoni).

La suite centrale, “Groove For Sub Clavian Vein”, è forse l’unico brano che coinvolga nella sua interezza. A partire da uno sciabolare ossessivo di chitarre noise, che aumenta di intensità con il passare dei minuti, vengono isolati degli oscillanti pattern ritmici (l’effetto è quasi da gamelan) su cui si staglia il vivido solismo ayleriano di Vandermark (dei King Tears Bat Trip sotto valium, in alternativa): la coda, infine, decresce nuovamente, spegnendosi in un tramestio ambientale. Il resto del disco si divide poi tra brutali fucilate jazzcore in pieno volto (la prima, esaltante metà di “Costal Surface” ha la stessa quadratura di The Thing e degli Zu di “Igneo” che, non a caso, hanno condiviso split sia con Mats Gustafsson che con lo stesso Vandermark), rovinose ascensioni atonali (“Oblique Fissure”), disarticolate digressioni impro (“Margo Inferior”, “Pleural Lobe”) e acidi strali bebop in slow motion (“Cardiac Impression”), con un significativo accentuarsi delle già rimarchevoli asperità all’avvicinarsi della conclusione.

Finché la saturazione dell’ossigeno non si sarà stabilizzata sullo zero, si intende…

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.