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R Recensione

8/10

Luca Lo Bianco

Ear Catcher

Sembra tutto così piccolo, in questo disco. Piccola l’etichetta che lo produce, la Fitzcarraldo Records (e qui fioccheranno i: “la… che?!?”). Piccolo il (bel) cartonato in cui è spartanamente inserito, con la dovuta sottolineatura che si tratta rigorosamente di materiale riciclato (la confezione, s’intende).Piccola, ma significativa, la presentazione che fa prima lo stesso Luca Lo Bianco e poi, all’interno del libretto, il grande 2Pac. Si parla della coclea raffigurata in copertina, della sua fragile perfezione, di nomadismo, della musica come linguaggio universale capace di contaminarsi e di “parlare mille lingue”.

Forse, allora, non è poi così piccolo il contenuto. Il dubbio si rafforza quando scopriamo che l’ensemble di musicisti all’opera, per l’occasione, si allarga in una grande formazione che comprende sax soprano e tenore, clarinetto (Gaspare Palazzolo), chitarra (Francesco Guaiana), violoncello (Marco Di Fonte), basso, contrabbasso (Lo Bianco), slide guitar (Fabio Rizzo) e, naturalmente, batteria (Fabrizio Giambanco). Una moltitudine di timbri e tonalità differenti, uno stuolo di suoni difficili da coalizzare ma, in fondo, complementari.  

C’è da dire, signori e signore, che le perplessità sul primo colpo d’occhio erano, a ben vedere, assolutamente fondate. Se gli standard entro i quali “Ear Catcher” cresce e si sviluppa sono profondamente jazz – ma non quello austero da conservatorio, bensì quello in libertà di fine ’60 – è altresì vero che le barriere e le distinzioni fra generi sono presto abbattute, annullate, appiattite. Non c’è necessità di etichettare cosa sia rock e cosa no, perché il mingling è totale (le contorsioni dell’opener “Girl With A Red Bike”, fenomenale step fusion giocato su tempi dispari e sfociato poi in un’acidissima tirata chitarristica). È musica che non ha bisogno di parole, perché le note stesse sono vocaboli che nessun prosatore riuscirà mai ad esprimere compiutamente (“Bar Code”, che pesca un po’ da Ornette Coleman).  

Certo, non vi sono solo esercizi cerebrali che richiedono un’attenzione superiore alla norma e precludono, di fatto, un ascolto a chi è in debito d’ossigeno, se sottoposto a questi ritmi. La bellezza globale del lavoro di Luca Lo Bianco è quella di mediare la sua importante ricerca cromatica con massicce dosi melodiche, sicuramente ricercate e di profondo impatto, come succede in “Oop”, vertice del disco, con cello e sax ad unirsi in un profondo respiro fra klezmer e musica balcanica. Anche “They Are Still Watching Us”, dedicata alle morti bianche, batte sullo stesso tipo di canovaccio, mettendo assieme tanti tipi di licenze sonore – il ritmo à la bossanova, l’assolo di clarinetto, il rinforzo di chitarra – per creare un unico, grande filo logico condotto per mano da un’armonia di fondo. Che, talvolta, diviene così sottile e seducente da rievocare alla mente gli struggenti panismi di uno come Art Pepper (“Overnight”).  

Cosa dovrebbe convincervi a dare un ascolto ad “Ear Catcher”, in conclusione? Ecco, vi ricordate della famigerata contaminazione di cui abbiamo accennato qualche paragrafo sopra? I Nostri la prendono proprio sul serio, sino alla fine. E sfornano due cover che sono l’emblema dell’eclettismo: “Teardrop” dei Massive Attack da un lato, “Language” (casualità?) di Suzanne Vega dall’altra. Ebbene, se questa è sì carina, ma un po’ troppo rigida e piena di quell’algido francesismo che da sempre accompagna la raffinata chanteuse newyorchese, l’ascolto di quella vi ghiaccerà il sangue nelle vene. Il trip hop privato della sua stessa essenza, riempito da un jazz rock nebbioso e poi ricoperto nuovamente dalle lande di Bristol. Un’interpretazione suggestiva e, in definitiva, bellissima.  

Non stupitevi, poi, se tutti i nostri talenti fuggono all’estero.

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Voto degli utenti: 4/10 in media su 1 voto.
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rael 4/10

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