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R Recensione

7,5/10

Mostly Other People Do The Killing

Slippery Rock

Moppa Elliott, Kevin Shea, Peter Evans e Jon Irabagon.

Eccoli, volenti o nolenti, questi quattro nomi hanno marchiato a fuoco la musica così come noi la conosciamo oggi, e sinceramente non sopporto più l'idea a) di scoprirli sempre in colpevole ritardo (hanno pubblicato il disco a gennaio) e b) di dovermi sempre inchinare davanti al loro genio.

Voglio essere sincero: sono pochi i musicisti che meritano un simile attributo, di cui si usa e abusa da una vita. Così la parola perde ogni significato, diventa tanto sfumata da potersi spalmare su tutto e su tutti (fra un po' pure io sarò un genio).

Elliott invece, un genio lo è per davvero. Possiede un talento lucidissimo e visionario, costruisce musica su musica, suoni su suoni.

Free Jazz? Certo, la libertà espositiva, gli intervalli dissonanti e la tendenza alla poliritmia sono free disossato. Ma vedo anche tanto bop, le simmetrie variabili e i cambi di accordi/ tonalità del post-bop, un uso ragionato dell'improvvisazione.E poi riferimenti para jazz come Frank Zappa.

Quindi, tutta roba seria e importante? Forse, ma i Mostly non hanno nulla di pretenzioso, non tendono a sfruttare. Due anni fa hanno dissacrato anche Keith Jarrett, qui invece sguazzano nel fango e citano roba come Jersey Shore: i più grandi non hanno bisogno di arricciare il naso o di aprire un solco fra “alto” e “basso”, perché rendono tutto alto.

Elliott è la mente, e gli altri non sono da meno: quello che fanno è buttare un bomba atomica sul mondo del jazz contemporaneo senza darsi arie e senza stancarsi mai, e quindi meritano un applauso lunghissimo.

Anche qui: Slobbery Rock - che scopro essere una cittadina della Pensylvania - avrà pure una copertina terribile, cartonesca e goffa come quella di “The Gilded Palace of Sin”. Ma la musica rimane spettacolare (per inciso, lo è anche quella del gruppo country). Talmente gonfia e accesa da richiedere un po' di tempo e più ascolti prima di essere assimilata.

Non assomigliano a nessuno, i quattro new yorkesi: forse all'Art Ensemble, altrettanto stravagante, ma si cammina sempre sulle sabbie mobili. La verita è che i Mostly sono il Bimby Robot della musica odierna, rimescolano tutto (lo fanno seguendo ricette segrete) e sfornano cose che riescono solo a loro.

Can't Tell Shipp from Shohola” è bizzarra e gravida di assoli irregolari: sassofono e tromba prima si abbracciano come in una qualsiasi suite, poi ognuno va per la propria strada. Semicrome dissonanti da parte di Evans, grugniti e noise puro da parte di Irabagon, il finale è una rapida discesa nel silenzio. Basso e batteria nel frattempo non perdono punti e sono swinganti come non mai. Insomma un gran bel casino, ma sono brani come questo che mantengono in vita la musica improvvisata.

Sayre” è una partitura per piccola orchestra aggiornata al 2013: i fiati procedono all'unisono o quasi, la batteria martella sincopi e pesta duro. Nel prosieguo si assaggiano due assoli contorti e pieni di rumore (e dato che a me piace il jazz rumoroso, va benissimo), il sassofono in particolare evita giochi di prestigio si appropria di scale ordinarie fino a storpiarle.

Anche questo brano lascia aperta la questione: i Mostly sono geniacci e va bene, ma ti stanno prendendo per i fondelli? Perché in diversi momenti non vedo nulla di serio nei fraseggi, nei botta e risposta che cambiano pelle e atmosfera ogni due-tre battute (come fanno?), solo ironia dissacrante e anche tanto, tanto divertimento. Questi godono quando suonano, per davvero, e ti trasmettono questa energia gioiosa.

President Polk” in tal senso è emblematica, vede la tromba scherzare con un registro acutissimo, le trame sono più sfumate e (se possibile) ancora più strane, in alcuni momenti tanto sinistre da essere fastidiose. Pare quasi che i musicisti si divertano in solitudine, qui Roscoe Mitchell e compagnia sono veramente ad un passo (io sento anche qualcosa di Henry Theadgrill).

Yo, Yeo, Yough” è ancora pungente e libera da ogni schema, catalogare musica simile è sempre molto difficile, perché i vari riferimenti si intrecciano fra loro, schiacciati dalla personalità dei musicisti: qui mi viene solo da dire che siamo dentro territori vagamente zappiani.

Dexter, Wayne & Mobley” dice tutto con il titolo, “Jersey Shore” è parodistica, confusa e snervante (quindi splendida), “Is Granny Spry” accumula frasi astruse e dissonanze sopra un ritmo più regolare e quasi soft-disco, che lentamente libera folate di schiuma acida. Nel finale siamo nella casa di Mingus e Dolphy, solo più allegri e goliardici, questa è musica per intellettuali alterati che si nascondono nei college come la University di Slippery Rock. "Hearts Content" è la più schiettamente post-bop, ma i geni vengono alterati dall'operazione di restyling messa in atto da Elliott e soci.

Ecco, alla fine posso solo a) dire che spero di non lasciarmeli più scappare, alla prossima uscita e b) chiedermi se sbaglieranno mai un disco, o tutti gli anni sarò costretto a inserirli nelle primissime posizioni della classifica. Mi avvisino, così almeno mi preparo psicologicamente alla prossima botta.

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