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R Recensione

8/10

Mostly Other People Do The Killing

The Coimbra Concert

I concetti di jazz e divertimento non sempre si sposano alla perfezione.

Ed anzi, per un certo pubblico di estrazione rock (a scanso di equivoci, mi inserisco pure io nel calderone), jazz è sinonimo di seriosità, assoli contorti poco fruibili e (forse) anche di snobismo.

Quando in realtà è difficile immaginare qualcosa di più popolare, almeno se si guarda alle sue origini: il jazz è il fratello maggiore della musica che spopolerà nei decenni successivi, tanto che lo svezzamento è avvenuto in localacci di terz'ordine frequentati dal popolo più disgraziato, calpestato ed umiliato d'America.

Tanto che, almeno per un certo periodo, jazz e musica afro-americana sono stati quasi due sinonimi, o comunque due concetti talmente intrecciati da diventare inestricabili.

Anche nell'anno di grazia 2011, quando il jazz è entrato da tempo nelle accademie e nei conservatori, e viene accostato senza timori reverenziali alla musica classica, fortunatamente si presenta sul palco un manipolo di pazzi (magari anche di estrazione musicale coltissima) che ha conservato la voglia di giocare e divertirsi con il suo linguaggio.

Senza peraltro lasciare sul sentiero neppure un briciolo della propria intelligenza lirica, della propria forza espressiva, del proprio insanabile desiderio di travalicare gli steccati della musica di consumo - o anche solo già codificata e disegnata nei suoi contorni essenziali - per sperimentare qualcosa di nuovo.

Uomini jazz che vantano una solidissima preparazione musicale ma anche uno spirito punk d'altri tempi e la voglia di meravigliare il pubblico, incuriosendolo attraverso l'uso di immagini dissacratorie.

Come la copertina di questo “The Coimbra Concert”, evidente omaggio al celeberrimo “Koln Concert” di Keith Jarrett.

Omaggio? O forse più un allegro sberleffo? Probabilmente entrambe le cose: la celebrazione di un genio riconosciuto si sposa con la volontà di “smontare” un mito, anzi forse il concetto stesso di mito.

Un po' come quando i Clash decidono di trasfigurare in un'immagine storica il proprio amore-odio per Elvis Presley e per la musica americana tutta.

Jarrett è un genio riconosciuto, ma non toglieteci il gusto di prenderlo a schiaffi, se ci va: un concetto estremamente punk, un bel sassolino gettato di forza nella pozza stagnante in cui alcuni (forse troppi) vorrebbero relegare il jazz, quasi avesse già perduto la propria vitalità e fosse semplicemente un monumento da contemplare, così come si contempla le statue celebrative che affollano le nostre piazze.

Un qualcosa che è già stato, che va studiato e decifrato, ma che non ha più nulla da dire, buono giusto per le scuole di musica come la classica barocca: ecco, questo è il concetto che i nostri vogliono estirpare.

Ma veniamo al dunque, ovvero alla musica, ed anzi ai musicisti. Le composizioni portano tutte la firma del contrabbassista Moppa Elliott, uno che si diverte a spettinarti a forza di cannonate e di gesti spiazzanti, uno che ha mandato a memoria la lezione dei maestri dello strumento ma che ha deciso di attingere anche al gusto compositivo di giganti come Mingus ed altri band-leader di vaglia.

Se Elliott è lo spirito guida di questo astruso progetto (già il nome scelto per la band è abbastanza inusuale: Mostly other people do the killing), lo strumentista ed interprete cardine è forse Peter Evans, noto ai jazzofili come uno fra i musicisti più promettenti della nostra epoca, ed anzi già come solidissima realtà. Un trombettista sinuoso, virtuoso e caloroso: uno che si è ripassato fino allo sfinimento la lezione di gente come Miles Davis ed anche (e forse sopratutto) dei grandi del free-jazz, su tutti Lester Bowie. Uno che passa con nonchalance dal para-bop godibilissimo di “Ghosts” (dove pure si mette a giocare con la tecnologia: si tratta di un disco che meriterebbe una recensione a parte) ad esperimenti di bellezza radicale come “Electric Fruit”, costellati di rumorismi e brutalità che strizzano l'occhio all'avanguardia più intransigente.

Uno che su “Blue Ball”, suite che conclude il primo dei due dischi di cui consta  “The Coimbra Concert”, si inventa un assolo che si divora tutto lo scibile jazz, dalle carezze morbide del Miles Davis targato Gil Evans alle mitragliate ritmiche di tanto free-jazz, con la stessa voracità di un Lester Bowie sotto anfetamine.

Le assonanze con il maestro dell'Art Ensemble of Chicago non finiscono qui: c'è anche quell'atmosfera fugacemente surrealista che pervade una manciata di brani, cavalcata con la stessa naturalezza che arride alle migliori performance della band chicagoana.

Non è solo Evans, ovviamente, a metterci un contributo importante: c'è anche tale Jon Irabagon, sassofonista di grido della scena newyorkese (quanto mai rigogliosa negli ultimi tempi), terrorista sonico irriverente e coraggioso al punto giusto per completare il discorso del trombettista (e, per inciso, un musicista che anche al di fuori del gruppo ha già scritto pagine significative, fra blues e rumori celestiali).

E così, se Evans è Lester Bowie, Irabagon è il Roscoe Mitchell della situazione; e “Pen Argyl”, duetto strampalato eppure dall'impatto vivido, testimonia lo stato di grazia assoluto del duo, e la sua capacità di appropriarsi del linguaggio zizagante dei musicisti dell'Art per infondervi gioia, brillantezza, fervore e lucidità. Anche “Factoryville” merita un cenno, perchè è un saggio di minimalismo applicato che non dimentica il piacere della melodia (che, a dispetto delle ambizione colte, qui è spesso di casa).

Qualche parola merita anche il batterista e percuossionista Kevin Shea, ora minimale e relegato in un'angolino, ora impegnato in accelerazioni e pseudo-tribalismi anarcoidi che lo differenziano dalla coltre schiumosa ed indefibile di molte batterie jazz. Uno che ha il rock nel sangue, insomma, tant'è vero che è parte integrante di quel progetto free-noise che risponde al nome di Talibam!.

Davanti a cotanta grazia, capace persino di strapparti un sorriso pur al cospetto di paroloni come fre-jazz, avanguardia e post-bop, anche il sommo Keith Jarrett potrà perdonare lo smacco, e godersi questa musica imprevedibile, ricca di colori e sfumature, bellissima.

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