R Recensione

7/10

Talibam!

Ordination of the Globetrotting Conscripts

Che cosa si può dire di Ordination of the globetrotting conscripts, secondo album dei Talibam! (o primo se non si considera l’ufficialità dell’esordio omonimo), la creatura del folletto batterista Kevin Shea? Intanto che non siamo di fronte a un dischetto pop da due soldi, bensì a un’opera a metà tra l’avanguardia rock e il free-jazz. Il che presuppone una certa dose di pazienza quantomeno per cercare di assimilare appieno un disco complesso, articolato e sicuramente anche molto pretenzioso. Ma dico pretenzioso non tanto perché parto col pregiudizio o perché ce l’abbia con Kevin Shea o col free-jazz. Certo ammetterò che tale filone non mi abbia mai davvero entusiasmato, tanto meno sono in grado di apprezzare l’avanguardia (più o meno rock) fine a sé stessa, pur riconoscendone il valore intrinseco di fondo. Tuttavia bisogna riconoscere che dopo un iniziale approccio abbastanza traumatico in cui la voglia di sparare sentenze a zero è stata molto alta ad un ascolto più attento il sottoscritto è stato costretto a rivedere gran parte dei suoi giudizi.

Resta il fatto che Ordination of the globetrotting conscritps a tratti continua a irritare, soprattutto nelle prolisse esibizioni di Kevin Shea, tanto tecnicamente devastante ed esuberante quanto inconcludente nei risultati nel pezzo omonimo Ordination of the globetrotting conscritps, in Revolutionary bummer weed and the syncretic narcotraffickers e in New burnt century. Paradossalmente è più razionalmente misurato il frastornante caos di Guns and butter tra i suoi gelidi synth e lo spumeggiante sax di Ed Bear che riporta alla mente il pirotecnico Albert Ayler.

Rambo’s passeggiata è forse il momento più esaltante del disco: aldilà del fatto che già il titolo del brano sia assolutamente geniale l’incedere appare stavolta un perfetto mix tra elettronica e post-punk distorto, tanto che a prima vista potrebbe anche sembrare un pezzo dei Liars più malati.

A petroglyphic massacre mette da parte la batteria e ponendosi da spartiacque del disco propone un cupo e spettrale jazz-ambient sulla scia della psichedelia kraut ‘70s. Inaspettatamente si piomba nella rivisitazione esotico-orientale di Lunch break at naan, jazz-world che ammicca al Goran Bregovic dei tempi d’oro.

The spectre of water wars è il piccolo gioiello che chiude il disco: mantenendo come base il free-drums che ha caratterizzato l’inizio del disco attraverso i suoi tredici minuti ripercorre quarant’anni di storia musicale in cui emergono brevi istantanee quali assoli alla Jimi Hendrix, sax alla John Coltrane, spezzettoni di suite ancestrali tra Pink Floyd (periodo Atom heart mother) e Soft Machine, frammenti di noise, hard-rock, industrial e ambient. Francamente chiedere di più era difficile.

Il giudizio finale resta un po’ stringato per i motivi personali sopra esposti, ma in effetti bisogna ammettere che l’impressione finale è di avere tra le mani qualcosa che scotti.

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