V Video

R Recensione

6/10

Flying Lotus

Flamagra

Anche se a vederlo non si direbbe, Kuso è un lungometraggio assai più convenzionale di quello che vorrebbe far credere. L’assunto narrativo – se riuscite a parlare di “assunto narrativo” per l’esordio registico di Steven Ellison senza scoppiare fragorosamente a ridere – è piuttosto vicino al Gummo di koriniana memoria: la metafora di un disastro naturale che sconvolge permanentemente menti e corpi di chi abita i luoghi colpiti – in questo caso, una L.A. cloaca maxima da cui fuoriescono freaks di ogni risma. Creature che della gender fluidity fanno trombetta, menomati a vario titolo, orribili deformazioni, pustole e liquidi corporei, un’ontologia dell’assurdo articolata in una serie di gironi infernali tenuamente collegati fra loro. L’operazione è pensata, tuttavia, più come un’antologia boschiana di frammenti incollati fra loro (finito uno, sotto un altro) che un unico corpo organico, senz’altra funzione se non quella della rincorsa all’épater più cinico e autoreferenziale. La sequenza è data: come in uno zootropio si ride, si inorridisce, si scuote la testa, si strabuzzano gli occhi, si volta altrove lo sguardo, per poi ricominciare da capo.

In sessantasette minuti uno può fare tutto e il contrario di tutto. Per “Flamagra”, oceanico ed atteso successore di “You’re Dead!” (2014), Flying Lotus (che pure incide ancora per Warp e non per la Brainfeeder di sua proprietà) decide da subito di adottare un approccio vicino all’operetta-zibaldone sul cui formato, in tempi recenti, si è intestardito Thundercat: un calderone ricolmo di suoni, saturo di ospiti, zeppo di declinazioni, distribuite lungo un diapason di cui non si riescono nemmeno a contare i layer. Dimenticate i lampi chirurgici di “Cosmogramma” (2010) e il concettualismo impressionistico di “You’re Dead!”: benvenuti, piuttosto, nell’arida terra dell’abbondanza, dove la bocca si secca per il troppo bere. Ricordate WOKE, quel paventato supergruppo che Ellison avrebbe avuto intenzione di mettere in piedi con Bruner, gli Shabazz Palaces e George Clinton? Per il momento non se n’è fatto niente, ma il grande vecchio di Parliament e Funkadelic ci ha preso gusto a rimanere nel giro, comparendo qui nel bombastico funk digitale di “Burning Down The House”. E Thundercat? Naturalmente c’è anche lui, accompagnato da nientemeno che Deantoni Parks nel suo solito, iperlevigato numero fusion-soul, che nei giorni pari suona ammaliante e in quelli dispari irritante (su “The Climb” fanno capolino, giusto per rimanere in tema, anche dei tremendi archi sintetici). Quanto al duo di Seattle, a loro toccano in eredità i due minuti risicati di “Actually Virtual”, un quadretto abstract hip hop sopra cui mulinano corde di basso e sordi loop percussionistici.

La domanda che potrebbe seguire è: in che direzione procedere, a partire da qui? Sono due le possibili risposte, a seconda dell’inclinazione tematica. La prima: continuare a costruirsi un percorso d’ascolto segmentato sulla caratura degli ospiti esterni. Saltando a piè pari le lascivie fuori tempo e fuori luogo di Toro Y Moi in “9 Carrots” e l’eerierecital lynchiano nella mini pièceFire Is Coming” (tra performance impro jazz e crescendo IDM, comunque non indispensabile), a stravincere sono le quote rosa con, sugli scudi, la Solange di “Land Of Honey” (soul hauntologico in slow motion) e la Tierra Whack di “Yellow Belly” (una cantilena allucinata su di un irritante beat metallico leggermente fuori tempo). La seconda: operare per raggruppamenti stilistici d’ordine superiore e osservare, nello specifico, cosa rimane al di fuori dagli incasellamenti. Qui i risultati sono più sorprendenti: ad avanzare in prima linea sono, infatti, frammenti sotto i due minuti di non immediata decrittazione, come la microsinfonia space di “Andromeda”, la squisita chamber cinematica di “Say Something” (forse, per quanto strano, il vero vertice di “Flamagra”), lo stortissimo jingle funk in reverse di “Pilgrim Side Eye” (ribaltato in una candida estasi ambientale) o l’exotidelia dubbeggiante di “Pygmy”. Sono queste le vere anomalie, le spine nel fianco di un opus magnum che, dalla maestosa apertura sulle note del funk-hop elettrico di “Heroes” alla chiusura trasfigurata di “Hot Oct.”, passando per la struttura a conchiglia di “More” (eccellente Anderson .Paak che, dopo una breve ouverture fusion, reinventa dal nulla, à la cLOUDDEAD, lo scheletro del pezzo) e i gommosi funambolismi di “Takashi”, tende a conservare un certo profilo convenzionale.

Fondamentalmente, tuttavia, il problema è questo: laddove il Flying Lotus degli anni precedenti dava il meglio di sé quando sviscerato in termini di Gestalt, qui, per dirla con Tina Turner, what you get is what you see. Nessuno stupore, nessun doppio cassetto. Quando l’ascolto di “Flamagra” termina, il primo pensiero che salta in mente è: ma quant’è bravo Steven Ellison. Non più: cos’è questa roba, lo rimetto su da capo. Persino trasparente nella sua composizionalità, “Flamagra” ci mette ventisette tracce per avanzare (legittime?) pretese di istituzionalità. Sarebbe bastato meno.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.