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R Recensione

6,5/10

Kamaal Williams

Wu Hen

Recita l’antico adagio che ogni medaglia possieda due facce. Difatti, per quanto sia ammaliato dalle evoluzioni in tempo reale della policroma scena jazz londinese, non ho mai nutrito particolari simpatie per le sue manifestazioni più scintillanti ed esuberanti. Da quando Kamaal Williams e Yussef Dayes, dopo il sovraesposto ma comunque buono “Black Focus” (2016) inciso a nome Yussef Kamaal, hanno non senza polemiche diviso le loro strade artistiche, tra i due musicisti si è consumato un compulsivo gioco al rialzo. Da una parte, abbandonate le tentazioni più esplicitamente post-fusion, il batterista Dayes si è circondato di un vero e proprio dream team, con il quale ha inciso i goduriosi singoli “Love Is The Message” e “Yesterday Princess”, un attimo prima di ricalibrare le proprie ambizioni sulle coordinate della tanto attesa, ma piuttosto generica collaborazione a quattro mani con Tom Misch (“What Kinda Music”). Dall’altra il tastierista Williams, tra una scorribanda e l’altra con l’alter ego clubber Henry Wu, ha trovato il tempo per assemblare i brani del non indimenticabile esordio “The Return” (2018), seguito oggi da un “Wu Hen” che ne rigetta parzialmente gli assunti minimalisti per estendersi su traiettorie da ensemble jazz post-moderno, con un piede in movimento sul dancefloor e l’altro mimetizzato in penombre da bebop orchestrale.

I segmenti in cui Williams si trasforma nel direttore sui generis della propria formazione allargata fanno intravedere buone cose, a tratti eccellenti. L’idea di affidare gli archi – ed i loro arrangiamenti – ad un nome di sicura garanzia quale Miguel Atwood-Ferguson (curriculum eterogeneo ed infinito, più recentemente con Thundercat, Makaya McCraven, Flying Lotus…) viene capitalizzata in almeno un paio di grandi istantanee: anzitutto l’opener, “Street Dreams”, una microelegia bristoliana disegnata a mano libera dai trilli dell’arpa di Alina Bzhezhinska (una controparte onirica della Brandee Younger collaboratrice di Makaya) e dai soffici fraseggi del sax di Quinn Mason; poi i volteggi romantici di una spigliata “Toulouse”, dove piano e sax si strutturano in perenne contrappunto. È un’introduzione di livello alla jam più avvincente dell’intero disco, “Pigalle”, un levigato bebop in crescendo agonistico dapprima dominato dalle scorribande tangenti free di Mason, poi risolto in una delicata chiosa swing-hop. Non si tratta di un equilibrio ottenuto a costo zero, anzi: a tratti la quadra sembra ancora non tornare completamente (la conclusiva meditazione astrale di “Early Prayer” è un po’ stucchevole) e, soprattutto, il divario con le composizioni più esplicitamente danzerecce è percepibile ad ogni piè sospinto. D’effetto dirompente è la stortissima linea tastieristica che incornicia l’acida breakbeat di “One More Time” (peccato per quei suoni gommosi da postremo revival ottantiano!) e piuttosto intriganti sono le percolazioni noirtopiche nell’impasto smooth-fusion di “1989” (forse il miglior lavoro di Atwood-Ferguson sull’intero album), ma già interminabile e in definitiva inconcludente è la disco balearica da Buddha Bar di “Save Me” e volatili al meglio le glosse synth-funk nel martello di “Mr. Wu”.

Si rimane, come nel caso del capitolo precedente, esattamente a metà: con la sensazione di aver investito il proprio tempo dissezionando una scrittura che si fa dimenticare il secondo dopo essersi disvelata. Il mezzo voto supplementare lo porta a casa la sola “Hold On”, selenico soul-hop interpretato dalla brava Lauren Faith e arricchito, nella seconda parte, da generosi arabeschi strumentali: uno dei migliori singoli dell’anno.

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FrancescoB alle 9:25 del 13 settembre 2020 ha scritto:

Condivido impressioni e giudizio, al solito Marco grandioso.