The Aristocrats
Culture Clash
Culture clash è il secondo album degli Aristocrats, trio strumentale fusion composto da Guthrie Govan (chitarra), Bryan Beller (basso) e Marco Minnemann (batteria). Alcuni dicono che al momento la band sia «[ ] lensemble musicale tecnicamente più evoluto e musicalmente coraggioso presente al mondo». Sta di certo che un britannico, un americano e un tedesco che si ritrovano assieme per dar vita a questa fusione di rock jazzistico è un evento raro dal punto di vista dellimmagine e seminale dal punto di vista delle culture di provenienza. Culture clash è certamente un gradino più in alto del precedente self-titled e vede una band in pieno tumulto creativo, con una musa ispiratrice in grande spolvero. E senza prendersi troppo sul serio, gli Aristocrats hanno deciso di mescolare tutti i loro personali stili per dar vita a qualcosa di delizioso, seppur allinterno dellinflazionato universo fusion. Una scelta aristocratica quanto impegnativa, una prova di forza che certamente li pone tra i migliori come dicevamo in apertura polistrumentisti a livello internazionale.
Il disco consta di nove brani e comincia con Dance of the aristocrats, che presenta un arrangiamento mostruoso, coadiuvato da palesi inserti elettronici, con gli assoli alla Charvel tecnicamente ineccepibili. La title-track, dapprima cupa, pian piano si sviluppa progressivamente, aprendosi ad esplosioni sonore ed improvvisazioni davvero magistrali; Louisville stomp si presenta invece come un esercizio di stile, perfetto ma anonimo, con cessioni belle e buone al rockabilly e al jazz classico; Ohhh nooo è molto funky; Gaping head woud fa tornare alla mente il Frank Zappa di Jazz from hell, sicuramente uno dei brani più affascinanti dellintero disco. Desert tornado si muove tra climi horror e scordature di chitarra, il tutto dimostrando un notevole interplay; Cocktail umbrellas è canone fusion, virtuosismo e talento, tecnica strumentale e affiatamento di gruppo; Living the dream ostenta un risvolto metal molto vicino negli stilemi ai Dream Theater. È qui che i curricula dei nostri vengon fuori in tutta la loro solidità: Bryan Beller ha suonato nientepopodimeno che con Steve Vai, sì, proprio lui, quello di For the love of God; Marco Minnemann ha lavorato con Steven Wilson e Joe Satriani; Bryan Beller con i tedeschi Necrophagist. Infine è la volta di And finally, con un mood decisamente più pacifico e rarefatto, pur mantenendo intatta quella poetica metheniana costruita sulla fantasia della chitarra.
Culture clash è un disco scritto, arrangiato e suonato in maniera esemplare, come pochi al mondo sanno fare. Ma sorge spontanea la domanda se basti il virtuosismo a rendere artisticamente valido un prodotto discografico: secondo chi scrive no. Dunque, se a livello strumentale il disco è da 9, sul piano squisitamente artistico non supera il 4. Fate voi i conti.
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