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R Recensione

8/10

Makaya McCraven

In The Moment

Thank you, guys, for joining us on our exploration. This is a spontaneous composition, so we don’t know what is going on”, annuncia Makaya McCraven al pubblico astante, in coda a “Slightest Right”. È una somma bugia: il brano, così come lo si ascolta nel side A di “In The Moment”, è stato assemblato ad hoc per suonare così, con quelle dinamiche, con quella durata, con quella conclusione ad effetto. Verissimo: al momento della sua esecuzione (febbraio, marzo 2013?), con ogni probabilità, era solamente ciò che prometteva, ovvero una “exploration” a rotta di collo dell’hip hop “analogico” e striato di lounge. Solo chi era presente in quelle sere all’Ukrainian Village di Chicago, e più precisamente al Bedford, un vecchio caveau trasformato in sala concerti, potrebbe parlare con cognizione di causa. Dalla nostra prospettiva, invece, i tre minuti risicati di “Slightest Right” entrano a far parte di un meccanismo immensamente superiore, una microscopica goccia in un oceano di registrazioni in presa diretta, un frammento isolato dal proprio contesto e, pertanto, caricato di sensi e significati del tutto nuovi. È la corrente impetuosa di un fiume catturata da un potente grandangolo, analizzata e scomposta in laboratorio, ritrasmessa in foggia diversa.

Si è parlato di “In The Moment” come di un grande, modernissimo esperimento di musica black, definizione altresì riduttiva nell’una e nell’altra direzione: ché dietro la sperimentazione v’è tantissimo olio di gomito, dietro la questione identitaria una babele di stili impossibile da addomesticare. Bastino le linee generali: il McCraven factotum del progetto, un giovane batterista franco-ungherese figlio di un a sua volta batterista e di una cantante folk, ad un anno di distanza da quello “Split Decision” (Chicago Sessions, 2012) che lo aveva segnalato come un eclettico band leader, comincia ad esibirsi sul palco del Bedford in tumultuose sessions di impro jazz, accompagnato ogni volta da strumentisti differenti. Al moltiplicarsi dei live (saranno ventotto, entro la fine dell’anno) si moltiplicano le combinazioni, entrano nuovi musicisti e comincia a farsi strada un’idea ambiziosissima: registrare scrupolosamente, con una dozzina di microfoni, tutto quello che sta avvenendo. Dalle quarantotto (!!) ore di materiale così ottenuto, McCraven fa il miracolo in post-produzione: analizza i suoni, taglia e cuce intere sezioni, fonde diverse intuizioni in corpi fra loro perfettamente omogenei, aggiunge delle sporadiche sovraincisioni, altera groove e melodie. L’attività, frenetica, intensissima, produce diciannove brani, settantatre spettacolari minuti arbitrariamente ripartiti non per cronologia o mappatura tematica, ma per formazione in azione.

A voler esprimere una preferenza personale, indicheremmo il side B dove, per quanto ci riguarda, si concentrano le migliori intuizioni, i lampi di genio più luminosi. In “Lonely”, sotto un micidiale insistito basso-batteria-vibrafono (qui, ad accompagnare McCraven, sono Junius Paul e Justin “Justefan” Thomas, il cui spiccato senso per la distonia lo avvicina in più di un frangente al Bobby Hutcherson nell’“Out To Lunch!” di dolphyiana memoria), si incontrano e scontrano il fraseggio acido di Jeff Parker e la tromba vagamente bop di Marquis Hill. Il chitarrista dei Tortoise troneggia anche in “Three Fifths A Man”, singhiozzante andante fusion à la BADBADNOTGOOD di grande inventiva e maestria (qui addirittura il pubblico interviene all’interno del brano, in un effetto da quarta parete invero notevole): dall’altro lato, “Butterscotch” è un perfetto singolo jazz/r’n’b, costruito interamente sulle sofisticate armonie del vibrafono e sul tocco quadratissimo di McCraven, e “On The Spot” si sfilaccia in stringhe psichedeliche dal fascino magnetico. Quella di “In The Moment”, lo si capisce, è una complessa questione filologica, portata avanti con tenacia e perizia: nel mirino del progetto v’è non solo l’eredità artistica dei musicisti in ballo (il bagaglio socioculturale di cui si lumeggia l’influenza, a più riprese, tra pezzo e pezzo), ma anche, e soprattutto, la reinterpretazione a latere di ciò che si è autonomamente provveduto a creare. Per questo stratificato incrocio di input, il disco, anche nei suoi passaggi volutamente incompiuti e acerbi (l’“Exploration Intro” che apre le danze è una delle primissime registrazioni effettuate con formazione a tre: McCraven, Hill e il bassista Matt Ulery), non rischia mai di deludere. Si ascoltino i dodici minuti di “First Thing First”, unico brano non editato in studio, che troneggia nel side A: un flusso di coscienza astratto – ma tangibilissimo – che, senza preavviso, si cangia in una sgroppata ritmica dai toni assolutistici, una samba nera ed indiavolata trasfigurata, sul finale, dal candore del vibrafono.

Siamo certi che gli ascoltatori più curiosi godranno compulsivamente, ripetutamente, finanche con ingordigia delle infinite possibilità dischiuse da “In The Moment”. Non per questo verrà escluso chi è abituato a pensare per compartimenti stagni. Anzi, procedere per piccoli passi, per mappe semantiche è, paradossalmente, l’approccio consigliato, la barra da mantenere per evitare di perdersi e confondersi. A coloro che sono intrigati dalle forme meticcie di jazz urbano piaceranno, senza remore, il trip hop fumoso di “The Jaunt”, “Requests” (gli Hypnotic Brass Ensemble ridotti ad una sola tromba, sempre quella di Hill, che scalfisce e scartavetra all’unisono) e “Just Stay Right There” (dove il chitarrismo liquido e meditativo di Parker ruzzola contro un muro ritmico impossibile a scalfirsi). Se puntate alla rarefazione, prestate particolare attenzione al side D, dove si susseguono l’onirico cool jazz di “Time Travel” (qui i ricami di Justefan raggiungono vette insuperate), il continuum astrale di “The Encore” (con grande break a ¾) e il funk arabeggiante di “The Drop”. I partigiani del cervello sulla pancia avranno di che divertirsi con le apnee elettroniche di “Untitled” e il quasi post rock di “Quartz” (come certe code emozionali più volte corteggiate da una come Matana Roberts). E così via.

Il grande pregio di “In The Moment”, al netto di una lunghezza forse eccessiva (ma niente a che vedere con il monumentale triplo di Kamasi Washington), è la sua trasversalità, che lo distingue parimenti dalla già citata Roberts e dal genietto bianco del sassofono, Colin Stetson. Misteri della musica libera. Ma libera veramente…

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 1 voto.
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C Commenti

Ci sono 4 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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FrancescoB (ha votato 7,5 questo disco) alle 11:27 del 7 dicembre 2015 ha scritto:

Non conosco, ma visti la qualità della recensione, la descrizione del disco e i nomi citati, direi che in questa cup of tea mi butto di ginocchia. E con aspettative notevoli. Grazie Marco per la segnalazione!

Paolo Nuzzi alle 11:50 del 11 dicembre 2015 ha scritto:

Prendo appunti anch'io e passo all'ascolto. Stanno uscendo cose meravigliose in questo 2015

Marco_Biasio, autore, alle 22:38 del 11 dicembre 2015 ha scritto:

Ringrazio dei complimenti e vi aspetto, allora. Qualcosa mi dice che apprezzerete moltissimo

FrancescoB (ha votato 7,5 questo disco) alle 15:35 del 12 dicembre 2015 ha scritto:

Confermo: tantissima roba, nonostante la lunghezza c'è davvero poco-nulla fuori posto. Posizione molto alta garantita a fine anno, per quello che vale. Condivido nella sostanza la descrizione di mood, brani e riferimenti.