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R Recensione

8,5/10

Makaya McCraven

Universal Beings

I like to remember things my own way. […] How I remember them. Not necessarily the way they happened

Fred Madison – Lost Highway

Faranno la gara a dirvi quant’è salomonico Kamasi (vero), che immenso talento possiede Shabaka Hutchings (vero), che genio contemporaneo è Colin Stetson (verissimo) e come è inarrivabile Thundercat (un po’ meno vero). Faranno la raccolta delle figurine, m’ama-non m’ama compulsivo sino all’Overshoot Da(is)y, snocciolando un nome dietro l’altro in ossequio ai dettami dell’esicasmo. Il grande assente sarà sempre e solo uno: Makaya McCraven. Il motivo è presto detto. Ogni volta che metto sul piatto un disco di Makaya, per suggestione sinestetica mi appare sotto gli occhi la radura di Rashōmon, teatro di un avvenimento sanguinoso che ciascun testimone preferisce raccontare a modo suo. Aiuta paragonare la creazione artistica del trentacinquenne batterista franco-ungherese alla sintesi impossibile delle confessioni kurosawiane, ad un inestricabile bandolo di pulsioni contrapposte: se si prescinde dai credits, è pressoché impossibile distinguere la registrazione studio da quella live, il momento di improvvisazione dal cut’n’paste ricreato a posteriori, un pezzo e le centinaia di successivi che vi fanno capolino. È una polifonia totalizzante che richiede di ripensare radicalmente alle categorie di spazio e tempo così come vengono solitamente percepite – in maniera unitaria – durante l’ascolto di un “normale” disco jazz. Non c’è un luogo e un tempo in cui avviene ciò che si ascolta: vi sono molti luoghi, molti tempi, a diverse latitudini, irrimediabilmente e indissolubilmente legati fra loro. È una scrittura che fluisce oltre i limiti della composizione predeterminata, in un formato liquido ed ondivago che traduce al meglio lo spirito della società contemporanea.

Con queste premesse non penso sia un caso che, in uno degli anni più fecondi e stimolanti di sempre per le produzioni di genere, McCraven abbia addirittura raddoppiato la posta in palio, scegliendo peraltro due formati molto diversi e a loro modo eloquenti: a giugno il corposo mixtapeWhere We Come From (CHICAGOxLONDON Mixtape)”, che sintetizza una due giorni di fuoco nell’ottobre 2017 al Total Refreshment Center londinese, a ottobre il suo capolavoro, le ventidue tracce del doppio “Universal Beings”. Scriviamo “capolavoro” intendendolo non in opposizione alle uscite precedenti, in particolar modo al fantastico “In The Moment” (2015), quanto piuttosto in comunicazione diretta con loro, come ultimo e forse definitivo perfezionamento di quelle geniali intuizioni teoriche (il cui approfondimento rimandiamo alle recensioni di allora). Ancora una volta la scelta, numerologicamente intrigante, di quattro facciate, che corrispondono a quattro situazioni completamente diverse, dove a cambiare non è solo la data e la location, ma anche la formazione di musicisti all’azione. I primi sei brani (“New York Side”) sono estratti da una registrazione di fine agosto 2017 all’H0L0 di Ridgewood, nel Queens: i successivi cinque (“Chicago Side”) sono stati catturati a qualche giorno di distanza, durante una jam al Co-Prosperity Sphere di Bridgeport; al “London Side”, le prime session in studio, appartengono cinque ulteriori brani, datati 19 ottobre 2017; il “Los Angeles Side”, infine, il più recente, sfodera sei pezzi registrati a casa del chitarrista Jeff Parker (storico nome dei Tortoise) sul finire del gennaio di quest’anno.

Se già “In The Moment” e “Highly Rare” vi sembravano dischi esageratamente creativi, non avete ancora ascoltato niente. “Universal Beings” è un’enciclopedia del jazz contemporaneo e di tutte le sue tendenze dominanti, come forse nemmeno “The Epic” era riuscito ad essere: un mastodonte di novanta minuti che lascia annichiliti per proporzioni, prospettiva ed estetica. Il primo disco raccoglie i primi due lati, entrambi dal vivo. Nel “New York Side”, assoluta accentratrice delle dinamiche del quintetto all’opera è l’arpa di Brandee Younger, che divelle granitici blocchi di suono nel cannabinoide jazz hop vibrafonato di “Holy Lands” e che quasi si traveste da ottone nella successiva “Young Genius” (con un incredibile cambio di passo swingato a metà brano), inabissandosi poi tra i flutti del trip hop sinfonico di “Tall Tales” (uso di violoncello e double bass favolistico, distonico e maestoso a un tempo) e tornando a condurre le danze tra le spire etno-folcloristiche di “Mantra”. Il superospite Shabaka Hutchings al sax tenore e il fidato Junius Paul a double bass e percussioni subentrano nel “Chicago Side”, ponendo la firma da subito sulla frastornante “Atlantic Black”, una drum’n’bass analogica con serratissimo fraseggio free jazz nel mezzo e lunga chiusura drammatica d’intensità sovrumana (si risentono, per la delizia dell’ascoltatore, sia la Matana Roberts di “Pov Piti” che l’Ornette di “Lonely Woman”): seguono poi la banda bop da chart di “Inner Flight” (singolo magnifico, ancor più in opposizione alla session precedente), il Sonny Rollins screziato concrète di “Wise Man, Wiser Woman” e lo straripante impatto ritmico di “Prosperity’s Fear”, che si spegne in sordina tra gli applausi del pubblico pagante.

Lungi dall’allentare la presa, il secondo disco, che raccoglie il lavoro in studio, sfodera quanto rimane dell’artiglieria pesante. “Flipped OUT”, primo brano del “London Side”, è un funk sistolico fuori sincrono che mette da subito in evidenza le doti delle due new entries più rilevanti, Nubya Garcia (Maisha) al sax tenore e Ashley Henry al piano Rhodes. Sul selenico bordone di Henry in “Voila” volteggia prima il double bass tuttofare di Daniel Casimir, poi l’ancia sanguigna di Garcia, la stessa che indirizza la successiva “Suite Haus” verso pronunciati lidi afro-lounge: “The Newbies Lift Off”, infine, sembra uscire dalle pagine migliori del Robert Glasper Experiment, tra psichedelia traslucida e il costante montare del drum kit di McCraven. È forse questo il frangente in cui il godimento viscerale sopravanza di gran lunga lo sperimentalismo: un’atmosfera di generale rilassatezza che predomina anche nel “Los Angeles Side” – basti sentire il surreale dialogo tra compagni di formazione che chiude l’elettrizzante warm up di “The Count Off” –, ma con una più accentuata tendenza all’asperità. Eccezionali gli autografi di questo autentico dream team a sei (oltre a Parker si aggiungono Josh Johnson al sax alto, Miguel Atwood-Ferguson al violino, Anna Butterss al double bass e Carlos Niño alle percussioni): dal gattonante post rock cool-cameristico di “Butterss’s” al noir non convenzionale di “Turtle Tricks” (eccezionale il solismo di Parker), dall’algido e circolare call&response di “The Fifth Monk” all’estatica dimensione hip hop della title track conclusiva, difficile non trovare un momento che non coinvolga e non emozioni.

Così va il mondo. Continueranno a parlarvi del disco perduto di Coltrane, di Kamaal Williams e Flying Lotus (chissà se tireranno in ballo anche Kuso), ma nessuno vi menzionerà Makaya McCraven. Fatelo voi, allora. E quando vi chiederanno lumi, rispondete sinceramente: è il musicista jazz più importante degli ultimi dieci anni e, ehi, questo è il suo ultimo disco, “Universal Beings”, è un doppio di ventidue tracce, ti consiglio di ascoltarlo, è un capolavoro.

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Voto degli utenti: 8,3/10 in media su 4 voti.
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GiuliaG 8,5/10

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Wonderful (ha votato 9 questo disco) alle 21:02 del 19 dicembre 2018 ha scritto:

Album Fantastico! Dall'inizio alla fine! Come sempre Grande Marco!

hotstone alle 12:05 del primo gennaio 2019 ha scritto:

Roba buona. ottimo disco