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R Recensione

8/10

Ambrose Akinmusire

On The Tender Spot Of Every Calloused Moment

La sparo grossa: Ambrose Akinmusire è diventato ciò che Wynton Marsalis non è riuscito a essere.

Wynton era e rimane chiaramente un musicista dotatissimo, il cui virtuosismo trascendentale, tuttavia, lo riscatta solo in parte dal sospetto dell'oleografia. Marsalis si piace troppo, in sintesi, e come spesso accade ai talenti naturali tende a farsi trascinare dalla propria abilità, anziché a governarla. Non mancano nella sua sterminata discografia brani e album memorabili, e il suo impatto sulla scena jazz contemporanea, anche tramite il ganglio-Lincoln Center, è innegabile e pure meritorio. Tuttavia, Wynton non è mai riuscito a divincolarsi da un certo manierismo, da una concezione del jazz che con un eufemismo possiamo definire tradizionalista (il vero jazz esiste, è musica puramente afroamericana, deve rispettare determinati canoni stilistici, il suo sviluppo si è bruscamente interrotto quando hanno fatto irruzione free, fusion, funk, avanguardia europea eccetera, compito dei musicisti contemporanei è essenzialmente perfezionare, abbellire ciò che la Storia mette a disposizione).

Akinmusire rischiava di fare la stessa fine: classe 1982, un curriculum da fare invidia a quasi tutti i musicisti del mondo (si diploma a 18 anni, sfonda alla Manhattan School of Jazz che non ne ha ancora compiuti 23, collabora con Hancock e Shorter quando ne ha appena compiuti 25), capacità tecniche che gli consentono di giocare in un campionato a parte, l'ammirazione incondizionata di tutto l'estabilishment, anche critico, del jazz. E poi quell'aria un po' così, un po' da persona agée, da night club degli anni '50, appunto da Manhattan School of Jazz con tanto di esami superati a pieni voti.

Fortuna che la sua evoluzione stilistica gli ha allontanato ogni sospetto di essere un tardo epigono del marsalismo. Il debutto, al netto di un titolo un po' enfatico e di una copertina così così, riusciva a recuperare i canoni estetici di una certa tradizione latamente post-bop catapultandoli negli anni '10, aprendo le porte al dominio incontrastato della BAM, ancorché declinata in forme meno anticonvenzionali rispetto ad altri correligionali.

Gli album successivi, pur con qualche eccesso formale, confermavano la statura del trombettista e contribuivano a trasformarlo in una sorta di rockstar del nuovo jazz (anni or sono ho cercato in ogni modo di assistere a una sua esibizione a Bergamo, ma i biglietti erano andati esauriti nel giro di poche ore). “On The Tender Spot Of Every Calloused Moment” fa ancora meglio, recuperando la perfezione estetica e non solo stilistica del debutto per aggiornarla a nuovi linguaggi, a nuove esigenze espressive e formali. Ambrose rovista nel carniere del post-bop per avvicinare, questa volta, l'audacia estetica dell'AACM e di certa BAM. Pur senza addentrarsi nei territori esplorati da Matana Roberts, e quindi rimanendo più accessibile, Ambrose questa volta getta la maschera e scodella la sua idea di jazz.

Tide Of Hyacinth” è il grande proemio e una sorta di manifesto: la tromba si muove in equilibrio tra il sofisticato universo estetico davisiano (le note pulite, la melodia) e la maggiore irruenza di Roscoe Mitchell; le percussioni ci ricordano che siamo nel 2020 e che l'afrojazz è tornato a spopolare, così come l'afro/cuban rap in lingua Yoruba di Jesus Diaz, che trasforma il primo brano in un capolavoro della BAM. “Yessss” rallenta il passo e diventa ancora più scopertamente davisiana; quando indugia su certi acuti o trattiene le note, Akinmusire si dimostra inoltre un perfetto conoscitore dei linguaggi codificati da Kenny Wheeler, del suo minimalismo pensoso; “Mr. Roscoe” è chiarissima sin dal titolo e il tema, angolare e contorto, ma sempre leggibile, è preso in prestito proprio dal Mitchell meno sperimentale; le stesse considerazioni valgono per “Reset (Quiet Victories & Celebrated Defeats)”, wheeleeriana come non mai, rarefatta eppure nervosa, capace di muoversi quasi in orbita Spring Heel Jack, con la tromba che canta solitaria dentro un buco nero. “Moon”, invece, più vivace e ritmicamente articolata, mi ricorda che Akinmusire si è formato alla scuola di Shorter e che la geniale, obliqua concezione armonica di Wayne non può che averlo profondamente influenzato. “4623” è il breve proclama braxtoniano (del resto si parla di Chicago e AACM), mentre il sentito omaggio a Roy Hargrove, trombettista e amico prematuramente scomparso nel 2018, rappresenta il momento più raccolto, più soul, più convenzionale nel migliore dei sensi possibili. “Blues (We Measure The Heart With A Fist)” dice qualcosa con il titolo, ma è chiaro che trasporta il blues su un piano diverso, che galleggia tra la precisione diagrammatica e al tempo stesso radicale di Braxton e certi astrusi collage dell'Art Ensemble Of Chicago.

Mi fermo qui: quarantotto minuti di goduria (merito anche dei suoi collaboratori storici, che formano oramai un gruppo collaudato e con pochi eguali sul piano squisitamente tecnico), e Shabaka inizi a preoccuparsi perché la corsa al titolo di disco dell'anno, per quanto mi riguarda, non è ancora chiusa.

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