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R Recensione

7/10

Brad Melhdau

Blues and Ballads

L'influenza di Bill Evans su Brad Mehldau è riconosciuta sin dagli anni '90, quando il pianista – al tempo giovanissimo – ha debuttato nella scena jazz della Grande Mela, con una formazione in trio chiaramente ritagliata sulle idee del maestro.

Le affinità si avvertono ancora oggi: “Blues and Ballads”, che segue l'ottimo “Ode” pubblicato nel 2012, è essenzialmente un compendio del rigoroso autobiografismo di Bill Evans, tradotto nel linguaggio raffinato di Brad.

Il musicista ha una formazione classica, e resta pertanto a debita distanza dalle innovazioni formali degli ultimi anni (il post-jazz di Matana Roberts, la black music totale di una miriade di giovanotti cresciuti a pane, hip hop, funk, elettronica)

Ovviamente, questo nulla toglie alla qualità elevata del suo lavoro. “Blues and Ballads” si divide fra composizioni originali, standard jazz (Cole Porter, Charlie Parker) e nuovi standard rubati al repertorio della musica pop. “And I Love Her” porta naturalmente la firma di Lennon e McCartney e nelle mani di Brad diventa una ballata in odore di impressionismo, un po' cupa, dilatata.

Come il pioniere Bill, che trasformò in commozione pura persino le sigle televisive, il ragazzo non ha paura di sporcarsi le mani con la musica pop, entrata a far parte a pieno diritto, e da un po' di tempo, del repertorio standard del jazz. Basti pensare che Brad ha omaggiato i Radiohead, Nick Drake, Paul Simon.

Since I Fell For You” regala dieci minuti di accorato camerismo, senza sbavature, in cui la consonanza la fa da padrona. Brad evoca Bill anche e soprattutto nell'uso della mano destra: mentre la sinistra è in sordina, e batte accordi ritmici, la destra si dedica alla melodia e agli abbellimenti di matrice classica.

“I Concetrate On You” (Cole Porter) viene rieditata in versione vagamente latina, mentre il tema diventa più spigoloso e arzigogolato. “These Foolish Things”, standard fra gli standard, è di una dolcezza toccante; Mehldau sviluppa la melodia prima con la destra e poi con la sinistra, indugiando sulle sonorità più gravi e pensose. “Cheryl” rivela le ambizioni democratiche del trio (tutti sono protagonisti, senza che uno strumento prevalichi sull'altro) mentre“My Valentine” è il gustoso commiato.

Nulla di rivoluzionario o di epocale, ma questa rimane musica ad alto tasso di complessità, raffinata e fortemente declinata in chiave personale. Tanto mi basta.

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