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R Recensione

9/10

Charles Mingus

Pithecanthropus Erectus

Nel 1956, il free-jazz è probabilmente poco più che una vibrazione impercettibile nell'aria.

E' vero, sta per aprirsi il decennio della contestazione e dei grandi rivolgimenti culturali, l'America (e con lei tutto il mondo occidentale) stanno per scatenare una tempesta epocale destinata a travolgere secoli di certezze, tradizioni, rapporti consolidati. Una tempesta di cui avvertono gli echi ancora oggi, persino in Italia (basti pensare alle recenti riforme scolastiche, per cui certi ministri si pavoneggiano di aver cancellato il '68).

Ma di tutto questo, ripeto, nel 1956 si avvertono soltanto i primi vagiti.

Molto spesso però i grandi artisti, le personalità più forti e sensibili, sono i primi a cogliere queste vibrazioni, a percepire che “the times are a'changing”.

E dato che Mingus e “grande artista” sono praticamente sinonimi, nel mio vocabolario, il gigante dell'Arizona non poteva che essere il primo, o comunque fra i primi, ad intravedere la strada che conduce verso il nuovo jazz.

Come ci dimostra in pieno questo “Pithecanthropus Erectus”, suo primo lavoro pienamente compiuto come band-leader, e di certo suo primo capolavoro da consegnare ai posteri. “Pithecanthropus Erectus” è una solenne riflessione sulla storia del genere umano, sin dalle sue primissime origini: solenne riflessione che richiede una formazione ridotta, rispetto alle prime, magniloquenti prove orchestrali del nostro, e che soprattutto si libera dei rigidi vincoli degli arrangiamenti scritti, evolvendo il discorso verso territori inusuali e completamente nuovi, prendendo spunto da Ellington così come da tutta la storia del genere, e contribuendo a riscriverla ex novo in diversi momenti.

Insomma, piedi saldamente ancorati nella tradizione e sguardo che già vede profilarsi la grande rivolta: il tutto, per raccontarci l'evoluzione del povero animale uomo, che vanamente si colloca al di sopra della natura (nel momento stesso in cui può camminare su due zampe), per poi affrontare un violento e repentino declino, risultato inevitabile della propria arroganza. Una storia abbastanza inquietante e comunque decisamente poco usuale, sino a quel momento, per il mondo del jazz anche più colto, a conferma della capacità di Charles di leggere in anticipo gli stravoglimenti ed i motivi culturali che saranno dominanti; una storia che si sviluppa in un lungo brano che Mingus cura nei minimi dettagli, alternando passaggi in 4/4 e spunti in 6/4, giocando sulla sovrapposizione delle voci di Jackie McLean (al sax contralto) e J.R. Monterose (al sax tenore), che si avvinghiano in un discorso musicale originale e ricco di dissonanze ed asperità, quasi feroce nella sua immediatezza espressiva, insomma già a suo modo perfettamente free.

Non è da meno il successivo “A Foggy Day”, rilettura di una classico di Gerswhin che il nostro ambienta in una San Franciso autunnale ed avvolta dalla nebbia (con tanto di fischi e clacson vari, simulati da fiati stridenti) ed interpreta poi con leggera eleganza, mostrando come nella sua formazione certi classici (anche europei) contino come Ellington ed i giganti del jazz.

Profile of Jackie” è una romantica “ballata”, sorretta da un tema classico al pianoforte e puntellata poi dalle pennellate leggiadre dei sassofoni.

Love Chant” è il primo omaggio di Mingus alla tradizione gospel-soul (che tanti frutti darà nel prosieguo della carriera).

Si tratta di un brano impressionante, della durata di oltre 14 minuti, che forse più di ogni altro si spinge verso il mondo che verrà, giocando sui contrasti, sui chiaroscuri, sulla veemenza e sull'aggressività dei suoni che faranno la fortuna di molta avanguardia jazz. Il tutto, per accompagnare idealmente il lavoro degli schiavi nei campi: i temi del razzismo, della discrimazione e dello sfruttamento furono sempre cari a Mingus. Anche perchè lo stesso autore, nel corso della popria vita, dovette confrontarsi con forme di discriminazione razziale a volte brutali e feroci, in altri casi (e più spesso) stupide e meschine, ma sempre e comunque inevitabilmente becere.

Nel 1956 gli anni '60 erano alle porte, dicevamo, e soltanto i più grandi se ne rendevano conto: Mingus qui, con quattro brani ed una durata complessiva che ancora rispetta il povero ascoltatore, proietta il mondo del jazz direttamente nel futuro, esprimendo finalmente il pieno tutte le proprie potenzialità tanto come contrabbassista quanto, e soprattutto, come compositore. Sempre con la consueta capacità di amalgamare alla perfezione strumentisti con storie e stili molto differenti: la sua fu sempre una presenza ingombrante, in tal senso, tanto che fra i suoi numerosissimi collaboratori soltanto Jackie McLean, ed in seguito Eric Dolphy, mostreranno una grande personalità ed una forte autonomia sotto il profilo artistico.

V Voti

Voto degli utenti: 8,8/10 in media su 16 voti.
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Noi! 8/10
stefinia 8,5/10
gramsci 9,5/10

C Commenti

Ci sono 6 commenti. Partecipa anche tu alla discussione!
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fabfabfab (ha votato 9 questo disco) alle 9:18 del 10 marzo 2011 ha scritto:

Veramente in anticipo (di molto) sui tempi questo disco, divertente anche per chi bisticcia con il linguaggio jazz. Bravo davvero Julian, aprire il sito e ascoltare "Pithecanthropus" di prima mattina è un privilegio, una meraviglia, una gioia per le orecchie....

lev alle 13:15 del 10 marzo 2011 ha scritto:

ho appena preso la ristampa in vinile e ho avuto modo di ascoltare solo un paio di volte questo disco che ancora non conoscevo. lo devo ancora assimilare. ripasserò x il voto.

Alfredo Cota (ha votato 9 questo disco) alle 21:31 del 23 novembre 2011 ha scritto:

Che album! Avanti come pochi altri, e poi Mingus è sempre Mingus <3

Utente non più registrato alle 13:33 del 4 novembre 2013 ha scritto:

Un GENIO. Nient'altro da aggiungere.

Mushu289 (ha votato 8 questo disco) alle 1:33 del 8 settembre 2015 ha scritto:

quest'album è ottimo, ma nulla in confronto a quello che ha fatto dopo..

Utente non più registrat (ha votato 8,5 questo disco) alle 22:45 del 5 giugno 2020 ha scritto:

Disco che in qualche modo segna un prima e un dopo nel jazz. Un "dopo" fatto da musicisti sempre più compositori, e in un certo senso più "autenticamente artisti", e meno meri "entertainers".

Naturalmente già con le suite di Ellington la cosa stava prendendo una piega piuttosto seria, ma qui, diciamo, le porte del progresso, quasi di colpo, si spalancano. Album peraltro decisamente poco incensato, a dispetto della ragguardevole statura.