Charles Mingus
The Black Saint and The Sinner Lady
Arrivo subito al dunque: The Black Saint and the Sinner Lady (scelta banale, ne convengo) è il disco jazz della mia vita, e ritengo difficile anche solo ipotizzare che qualcuno possa usurparne il trono.
Sviscerarne i meccanismi, le ardite modulazioni, i segreti compositivi è troppo difficile. Io posso intuire qualcosa, ma non sono oggettivamente in grado di descrivere a puntino ogni passaggio, ogni dettaglio di un lavoro tanto mastodontico.
Anche perché, come accade sempre con Mingus, l'estrema complessità formale mimetizza una potenza espressiva infinita, potenza che poi è il vero segreto del genio dell'Arizona, ciò che rende le sue ardite creazioni imprescindibili per chiunque ami la musica (e ometto il termine jazz volutamente: per me Mingus è una tappa obbligata per chiunque ami la musica ,e basta).
Il Santo Nero e La Peccatrice vedono la luce nel 1963. Sono l'esito più alto di una vicenda umana sconcertante, che straccia le pagine di ogni possibile rilettura in chiave romanzata: la vita reale di Charles non può essere immiserita dentro una pagina e dentro il suo inchiostro. Ne risulterebbe ingiustamente rimpicciolita.
Lo stesso vale per The Black Saint and the Sinner Lady. Azzardare una descrizione, davanti a un lavoro simile, è sempre avventato.
Ci provo proprio per questo: il disco del 1963 caso più unico che raro riporta in copertina le note dello psichiatra di Mingus, ovvero colui che nella celebre autobiografia proclama In altre parole io sono tre. E in effetti, questa virulenza schizofrenica, la natura bizzarra e bipolare di Mingus si manifesta energica proprio in questa opera, più che altrove.
Altro dettaglio non da poco: i tecnici di studio (su tutti, il produttore Bob Thiele), tormentati da un Mingus in versione stalker e sempre insoddisfatto, hanno lavorato a lungo sui nastri, per ricomporre in un mosaico coerente quella che in origine era "solo" la creazione visionaria di un genio superiore.
In tal senso, Mingus prelude di quasi un decennio al fitto e certosino lavoro di restyling che caratterizzerà negli anni '70 le lunghissime, oceaniche sessions del Davis elettrico.
Dal punto di vista squisitamente compositivo, il capolavoro del 1963 porta a compimento alcuni fra i motivi cardinali della carriera di Mingus, spostandoli però su un piano superiore per impatto, originalità e coerenza. Tanto che risulta davvero difficile definire lo stile adottato da Charles, anche all'interno della sua discografia: quest'opera, pur sintetizzando l'epopea di Charles, rappresenta allo stesso tempo un unicum.
I motivi cardine, dicevo.
Primo fra tutti, la scrittura a pannelli, rigogliosa e sovraccarica, eppure condotta per mano attraverso continue, complesse trasformazioni. Di tempo, d'atmosfera, del ritmo. In tal senso, Mingus rappresenta uno shock vero e proprio: il jazz, quando il gigante irrompe, è per definizione la musica deputata ad accompagnare il ballo, e quindi si sviluppa in modo lineare anche quando si nutre di strutture compositive di indicibile complessità, come nel caso del maestro di Charles, Duke Ellington.
Con il gigante dell'Ariziona, il jazz diventa invece una musica asimmetrica, che accelera e decelera di continuo. E che pure rimane musica da ballo, nelle intenzioni dell'autore: tant'è vero che, invitato a definire il genere di The Black Saint and the Sinner Lady, Mingus parla di ethnic-folk-dance-music, e volutamente evita la parola jazz; tant'è vero che il disco è teoricamente finalizzato ad accompagnare un balletto immaginario, da celebrare con la peccatrice del titolo, la madre di tutti i conflitti dell'autore.
Un balletto che vorrebbe essere anche potente metafora della condizione degli afroamericani in America, una ideale colonna sonora della loro vicenda altamente conflittuale e sofferta, del lungo cammino verso l'emancipazione.
Secondo punto: Mingus è il maestro della polifonia strumentale, sembra un Ellington declinato in chiave violentemente espressionista. Il solco che separa i due massimi compositori jazz di sempre è profondo quanto quello che divide Monet da Picasso. Laddove Ellington, con tutti i distinguo del caso, conserva sempre una sacra forma di equilibrio, Mingus si spinge oltre, deformando il materiale a sua disposizione, quasi che tale abuso della forma fosse la traduzione sul pentagramma della sua personalità disarticolata e sconnessa. Ecco, in tal senso, The Black Saint and the Sinner Lady consacra come mai era accaduto prima le capacità drammatiche di Mingus: i suoi lunghissimi chorus si trasfigurano in un volo tragico frazionato in numerose parti, sostenuto da un pathos quasi tangibile.
Terzo punto, che si correla al precedente: la polifonia di Mingus celebra il matrimonio definitivo fra scrittura e improvvisazione. Charles ritaglia le parti soliste sulla personalità e sulle capacità dei suoi collaboratori: ecco così che il sax contralto di Charlie Mariano è spudoratamente plasmato sul mood del Johnny Hodges di Ellington (l'uso continuo della sordina wah-wah); ecco così che il trombone di Quentin Jackson è a sua volta una nuova veste cucita sul suono della jungla del maestro. Lo stesso intreccio fra le parti è ricalcato su quello di Ellington: ma qui si parla di una jungla pericolosa, dove natura significa peccato, e anche irresistibile tensione sessuale. In sostanza, Mingus riprende le architetture di Ellington e le deforma, un po' come se il Duomo di Milano diventasse la Sagrada Familia.
Ultimo punto: la passione di Charles per la musica spagnola e latinoamericana attinge a nuove, algidissime vette di stordente bellezza. Flamenco, paso doble e altri ritmi propri della tradizione latina si mimetizzano nelle quattro suite di Charles, coadiuvato dalla meravigliosa chitarra di Berliner (che suonerà poi su Astral Weeks). La chitarra è elemento chiave per comprendere il dinamismo dell'opera: i pezzi arrestano d'improvviso la propria furia polifonica per lasciare spazio al virtuoso melodismo di Berliner, in un gioco di contrasti improvviso e violento.
Passiamo ai brani: un ritmo sinistro ondeggia di continuo sotto i piedi delle quattro suite.
Solo Dancer: la batteria che detta il tempo della danza (non dimentichiamo che questa, nelle intenzioni dell'autore, è dance music), l'orchestra e il trombone che ti cullano, e poi 6 minuti abbondanti di volteggi del sax contralto, un basso che pennella melodie penetranti. La miccia è accesa.
Duet Solo Dancers diventa più carnale e vivamente orchestrale, ma lo schema ritmico non muta: due note gonfiano e sgonfiano la musica senza interruzione, come fosse un'onda; quindi ecco un interludio di chitarra che sembra un numero dell'opera di Pechino, tanto è accecante. Trio Dancers inizia come un canto, tanto risulta riconoscibile la tessitura umana della voce del trombone, e delfagra poi in un complesso gioco di incastri orchestrali - fra gli strumenti a fiato - di soverchiante forza espressiva, disposto su pannelli paralleli in perenne agitazione, sostenuto da un'inquietudine molto autobiografica, quasi luttuosa. Mingus non sposa mai l'estetica del free jazz, ma la densità delle sue orchestrazioni risente un po', forse inevitabilmente, della libertà agguantata dal free.
Trio and Group Dancers è uno fra i momenti più alti della storia della musica del '900, un aquilone cosmico che compatta dentro 18 minuti tutto l'universo psichico mingusiano: la suite gioca con i contrasti, alterna assalti orchestrali incendiari a sublimi solo della chitarra, sempre in odore di flamenco; quindi ecco un pianoforte, i continui rigonfiamenti di una musica che pare respirare da sola, e un finale di fuoco, che lentamente si spegne verso il silenzio.
La suite è di una ricchezza policromatica difficile da tradurre su carta: perché l'attrito di voci, colori, timbri, e melodie sembra davvero inafferrabile, inclassificabile. L'intreccio ignora i ruoli classici degli strumenti e per questo risulta meravigliosamente anarchico, ancorché certosinamente programmato in ogni battuta. In altri termini, il prodotto di una mente spostata che ha però la fortuna di poter sfruttare un orecchio impareggiabile quando si tratta di mettere in musica questo disturbo.
Non aggiungo altro: The Black Saint and the Sinner Lady attende con ansia chiunque volesse confrontarsi con 40 minuti di pura, estatica meraviglia.
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