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8/10

Ella Fitzgerald

Ella In London

A Londra a due passi dalla trafficata Charing Cross Road nel quartiere di Soho, si trova Frith Street, una viuzza molto frequentata grazie alla presenza del Bar Italia, famoso bar caffetteria cantato anche dai Pulp e dove si possono vedere le partite di calcio della Serie A italiana. Di fronte al Bar Italia ha sede il Ronnie Scott’s, leggendario jazz club e punto di riferimento per appassionati del genere che si assiepano ogni sera per deliziare le papille uditive con musicisti locali e i grandi virtuosi d’oltreoceano.

L’elenco di nomi noti saliti sul palco del Ronnie Scott’s ha dell’incredibile: Sarah Vaughan, Chet Baker, Miles Davis, Nina Simone, Charlie Watts, Stan Getz, Wes Montgomery… una sera dell’aprile 1974 fu la volta di Ella Fitzgerald; il produttore e manager di Ella, Norman Granz, non si fece sfuggire l’occasione di registrare la serata.

Quando The First Lady Of Song (o Mama Jazz come la chiamarono i fan italiani) giunge a Londra, è ormai da vari decenni una star del vocal jazz e molto probabilmente la più popolare delle interpreti femminili. Fiaccata nel fisico da gravi problemi alla vista (probabilmente dovuti al manifestarsi del diabete che le sarà fatale molti anni dopo) ma non nelle corde vocali ancora dotate di quella intensa versatilità che ha sempre contraddistinto il suo carme lirico, Ella Fitzgerald affronta la platea del Ronnie comprensibilmente eccitata da questo singolare ritorno in un piccolo club (il Ronnie Scott’s non contiene più di 250 posti), e questa atmosfera così intima e confidenziale è assolutamente percepibile tra i solchi della registrazione.

Ad aprire le danze è Sweet Georgia Brown, uno standard jazz di Era Charleston ideale per scaldare la serata e tradurre in realtà, qualora ce ne fosse stato bisogno, il fatto di trovarsi di fronte un quartetto di accompagnamento in stato di grazia. Le abili dita del pianista Tommy Flanagan (già reclutato da Coltrane per Giant Steps) signoreggiano per l’intera durata del set, in scaletta trovano spazio un paio di brani dei Gershwin (il songbook dei fratelli statunitensi è da sempre familiare alla Fitzgerald), They Can’t Take That Away From Me e la più famosa The Man I Love nella quale spicca il gran lavoro al contrabbasso di Keter Betts che con la batteria di Bobby Durham forma una sezione ritmica di inappuntabile solidità.

La voce della Fitzgerald è sempre meticolosamente intonata, le sillabe sul finale di ogni strofa sono allungate sino al loro naturale compimento, è il caso della delicata Ev’ry Time We Say Goodbye di Cole Porter, introdotta da un curioso :

I must make an apologie, because the only time I sing this song is when I play England, it never became a hit anywhere else!

che suscita ilarità tra il pubblico, sollecitato dalla stessa Fitzgerald ad aiutarla qualora dimenticasse il testo. You’ve Got A Friend è una stravolta rilettura del famoso brano di Carole King, entusiasmante il finale in pieno boogie R’n’B e soul di marca Stax.

Non è Ella l’unica star della serata, rigorosamente seduto alla sua destra opera un gigante della chitarra jazz : Joe Pass. Nato nel New Jersey ma figlio di immigrati siciliani (vero nome Passalacqua), Pass giunge alla ribalta in ritardo causa problemi con la droga e lunghi anni di detenzione ma è uno di quei chitarristi che ti fa venir voglia di appendere definitivamente la chitarra al chiodo; celebre il suo approccio fantasioso capace di tenere il walking bass unitamente ad accordi strappati e fraseggi di solo. Non è questo l’album adatto per apprezzare il chitarrismo di Pass, qui relegato ad un oscuro lavoro di accompagnamento sciaguratamente tenuto basso nel missaggio finale, il "Virtuoso" emerge in The Very Thought Of You per solo chitarra e voce, una performance ritmico-solista da brividi che si conclude tra le urla sgraziate del pubblico in visibilio.

Lemon Drop è un classico del bebop, la Fitzgerald fa qui sfoggio della tecnica vocale scat, celebri i suoi dibidubida-mbe-dah-dah capaci di imitare qualsiasi strumento in un orchestra, in questo caso la linea vocale potrebbe essere uno strumento a fiato (sax o tromba)…ma in alcuni passaggi anche una chitarra solista, tutto semplicemente inaudito.

It Don’t Mean A Thing (if it ain’t got that swing) è introdotta da un ritmato divertissement che passa in rassegna i vari generi musicali (classica, dixieland, country ‘n’ western, soul) e la "big band era" di Count Basie e Duke Ellington, per giungere alla conclusione che le definizioni musicali "non significano nulla (se non hanno quello Swing)", parafrasando appunto il titolo del brano di Duke Ellington che parte frenetico e delirante caratterizzando uno dei momenti clou della serata.

Ci sono vari album live validi della cantante statunitense: Ella In Rome, The Birthday Concert del 1958, The Stockholm Concert 1966 con l’orchestra di Ellington, il leggendario Ella In Berlin del 1960, ma l'essenzialità genuina dello show e l'inalterato dinamismo vocale della protagonista fanno di questo Ella In London una delle vette più alte degli anni della maturità della cantante di Newport News - Virginia.

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