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R Recensione

10/10

Eric Dolphy

Out To Lunch!

Tradizione, ricerca, innovazione. Sognante, folgorante, spiazzante. Flauto, Sax contralto, clarinetto basso. In una parola: Eric Dolphy. Musicista straordinario ed innovativo, con i piedi ben saldi nella tradizione jazzistica post-Be bop, ma in continua ed incessante smania di forzarne i limiti tecnici, timbrici ed armonici, Dolphy è stato un genio assoluto, dotato di una dedizione alla musica ed un senso dell’armonia pressoché unici nella storia della musica afro americana.

Uno e trino come gli strumenti di cui è stato mirabile maestro, il sax contralto, strumento consegnato alla gloria dall’immenso Charlie Parker, di cui il musicista californiano ricalca le gesta, suonando dapprima come un disciplinato erede, poi come un figlio rinnegato; il flauto traverso, strumento dolce come l’ambrosia e dal suono celestiale e sfuggente, in mano sua un rivolo di note incandescenti, che saltano dentro e fuori il pentagramma, propaggine estrema della musica d’avanguardia e tentativo di imitazione del canto degli uccelli. Infine, il Clarinetto basso, strumento usato rarissimamente nel jazz, con cui Dolphy supera se stesso e sfida l’intero mondo jazzistico, ancora a bocca aperta di fronte a cotanta padronanza tecnica e timbrica, nonché all’impressionante gamma di linguaggi del tutto nuovi e soluzioni aperte che era capace di creare ed infondere, ogni volta che lo imbracciava. L’immenso capolavoro che è Out To Lunch! è felice sintesi di tutto ciò.

Registrato il 25 Febbraio del 1964, è di fatto l’ultimo approdo (Dolphy ci lascerà, ahimè, pochi mesi dopo, stroncato da un diabete non diagnosticato) del grande jazzista californiano, felice terra di nessuno tra bop, avanguardia, free-jazz e ricerca: un campionario di follie atonali, tenui ballate ed asperità boppistiche, che sembrano i deliri del cappellaio matto alle prese con un enigma impossibile da decifrare, come dimostrano chiaramente le sette lancette che spuntano da ogni dove nel quadrante dell’orologio della splendida copertina. Il viaggio folle inizia con Hat and Beard, una marcetta espressionista, un camembert molle di Daliniana memoria, che sembra cristallizzarsi nel tempo e nello spazio in un andamento bizzarro, disegnato dalla batteria di Tony Williams, il contrabbasso di Richard Davis ed il Vibrafono di Bobby Hutcherson, che fungono da tappeto sonoro alle scorribande del leader ed il canto strozzato ed inquietante del suo clarone, che produce micro cellule impazzite, scale ascendenti, piccoli centri tonali che sembrano mettere in discussione in ogni momento la composizione e lo spazio circostante. In particolar modo il vibrafono, funge allo stesso tempo da ponte per le improvvisazioni solistiche e collettive di Dolphy ed i suoi sodali, talvolta creando significativi vuoti, quasi un’ attesa messianica che si tramuta in precipitosi balzi nell’ignoto, in avventure sonore diverse e sempre nuove.

Something Sweet, Something Tender è l’unica ballata del disco, introdotta dal contrabbasso suonato con l’archetto e dalle note celestiali del vibrafono a coadiuvare ancora una volta il clarone impazzito del leader. Ma le sorprese non finiscono qui: se Gazzelloni, mirabile composizione astratta dedicata al grande musicista italiano, Severino Gazzelloni soprannominato “il flauto d’oro”, stupisce per l’assoluta padronanza di Dolphy del flauto traverso, che tra le sue dita si apre a mille possibilità, dialogando con la tromba del grandissimo Freddie Hubbard, che pungola il leader e suggerisce spunti ed idee sempre nuove, interrogandosi di continuo sul percorso da seguire, sono la title track e la furiosa Straight Up and Down l’apice di questo disco unico ed ineguagliato. Qui Dolphy lascia la parola al suo sax contralto e si resta abbagliati di fronte al coacervo di idee, esperienze e linguaggi che il jazzista espone con assoluta disinvoltura e facilità estrema nel corso di venti minuti complessivi, anticipando di fatto i salti nel vuoto dei musicisti di Chicago appartenenti  all’AACM come Braxton e Roscoe Mitchell, nonché le coraggiose escursioni atonali del geniale sassofonista newyorchese Albert Ayler.

Dopo più di quarant' anni, Out To Lunch! continua ad ammaliare e stupire, lasciando allo stesso tempo un senso di frustrazione e rammarico nei confronti dello sfortunato musicista autore di questo ineguagliato affresco sonoro, che non è riuscito ad ottenere in vita il successo e la visibilità tanto agognate, perché segnato da un destino beffardo e maligno allo stesso tempo. Ma come si sa, la musica è immortale, così come il suo autore. So Long, Eric. Don't stay over there too long.

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Voto degli utenti: 9,5/10 in media su 10 voti.
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gramsci 10/10
Cas 9,5/10
loson 9/10
Lelling 9,5/10

C Commenti

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FrancescoB (ha votato 9 questo disco) alle 13:34 del 28 aprile 2015 ha scritto:

Bravissimo Paolo, non è facile cimentarsi con uno degli UFO della storia del jazz (un UFO godibile però, mica roba cervellotica). Dolphy musicista senza paragoni, stimatissimo dai colleghi (su tutti Mingus, ma anche Trane e tanti altri), originalissimo e versatile come non si vedeva dai tempi di New Orleans. Come Ayler arcano eppure animato da un furore futurista, come Parker leggero e disarmante per la ferrea lucidità del linguaggio, come Braxton & Mitchell coraggioso e senza compromessi, come Monk "angolare", dissonante in modo quasi infantile, a discapito della complessità delle teorie che stanno dietro alla sua opera. "Out To Lunch" per me non può mancare in nessuna discografia jazz che si rispetti, anche per il particolare uso dei tempi e della metrica, originalissimo in ambito jazz.

Paolo Nuzzi, autore, alle 14:07 del 28 aprile 2015 ha scritto:

Eh Sì, io possiedo tutti (o quasi) i dischi nei quali ha dato un apporto significativo, come ad esempio "Point of Departure" di Andrew Hill, dove si cimenta in assoli ALLUCINANTI. La sua perdita prematura è inammissibile, il minimo che potessi fare è ricordarlo. Grazie per i complimenti, mio caro.

FrancescoB (ha votato 9 questo disco) alle 14:45 del 28 aprile 2015 ha scritto:

Verissimo...anche quello è un capolavoro! Ma per coglierne la portata storica (per me si tratta di genio sottostimato ingiustamente al cospetto di altri, un po' come Wayne Shorter) basterebbe ricordare l'apporto cruciale alla rivoluzione di Coleman, le collaborazioni con Mingus (il duetto in "Presents Charles Mingus" è da pelle d'oca, musica che ti porta via strati dell'anima), con Trane (Olè), con altri musicisti raffinati come John Lewis o africaneggianti come Max Roach etc..

FrancescoB (ha votato 9 questo disco) alle 14:47 del 28 aprile 2015 ha scritto:

Dettaglio non da poco: che concezione assurda ha delle percussioni Tony Williams? Un fenomeno vero, uno che ha saputo esaltare il suo virtuosismo trascendentale per costruire una nuova idea del ruolo della batteria nel jazz e non solo...

Utente non più registrato alle 14:00 del 28 aprile 2015 ha scritto:

Ooooh finalmente...ca po la vo ro assoluto

Paolo Nuzzi, autore, alle 15:00 del 28 aprile 2015 ha scritto:

Sì, cazzo, sì! Tra l'altro io ho imparato ad amare il drumming di Tony proprio con gli incredibili dischi anni sessanta di Miles. France' inondiamo il sito di recensioni jazz

Utente non più registrato alle 14:02 del 30 aprile 2015 ha scritto:

...'s...

Eric Dolphy - Status ('60), Dash One ('60), Outward Bound ('60), Here and There ('60), Fire Waltz ('60), Out There ('60), Candid Dolphy ('60), Magic ('60), Far Cry ('60), Eric Dolphy ('60), The Great Concert of Eric Dolphy ('61),

Live! at the Five Spot, Vol. 1, 2 ('61), Berlin Concerts ('62), Eric Dolphy in Europe, Vol. 1, 2, 3 ('61),

Copenhagen Concert ('61), Iron Man ('63), The Illinois Concert ('63), Out to Lunch! ('64), Last Date ('64)

Charles Mingus - Mingus Revisited (Pre-Bird) ('60), Charles Mingus Presents Charles Mingus ('60),

Mingus at Antibes ('60), Mingus Mingus Mingus Mingus Mingus ('63), Town Hall Concert ('64)

The Great Concert of Charles Mingus ('64)

Ornette Coleman - Free Jazz ('60)

John Coltrane - Olé Coltrane ('61), Africa/Brass ('61), Live at the Village Vanguard ('61)

Booker Little - Out Front ('60)

George Russell - Ezz-thetics ('61)

Max Roach - Percussion Bitter Sweet ('61)

Abbey Lincoln - Straight Ahead ('61)

Oliver Nelson - The Blues and the Abstract Truth ('61), Straight Ahead ('61)

John Lewis - Jazz Abstrations ('60)

Mal Waldron - The Quest ('61)

Freddie Hubbard - The Body & the Soul ('63)

Andrew Hill - Point of Departure ('64)

Gil Evans - The Individualism of Gil Evans ('64)

Paolo Nuzzi, autore, alle 15:10 del 30 aprile 2015 ha scritto:

Quanto ben di Dio.. Ma The Quest di Mal Waldron cos'è? Ezz-Thetics di Russell? Mamma mia...

FrancescoB (ha votato 9 questo disco) alle 15:20 del 30 aprile 2015 ha scritto:

Russell è un po' il padre del jazz modale, dal punto di vista teorico (so che ha scritto un manuale molto complesso in materia). Ezz-Thetics mi "prende" meno rispetto ad altri lavori, diciamo che la sua visione architettonica ultra-raziocinante non sempre mi garba, ma dal punto di vista squisitamente compositivo, esecutivo e strutturale quel disco era avanti anni luce. In certi movimenti folli Russel preconizza anche i free jazz più razionalista, un po' come l'estroso Jimmy Giuffre, altro musicista dotato di coraggio da vendere e di una visione tutta personale della musica.

Paolo Nuzzi, autore, alle 15:35 del 30 aprile 2015 ha scritto:

Esatto. Un maestro anche del modo frigio, in particolare. Un grandissimo e lucidissimo pensatore, Ezz-Tethics può essere cervellotico, è vero. Ma era e resta avanti anni luce, in quanto a freschezza compositiva, idee e spunti. Giuffre mi lascia un po' freddo, così come un altro grandissimo del free-jazz razionale ed "addomesticato" come Lee Konitz. Vogliamo citare The Blues and the Abstract Truth di un altro sottovalutatissimo e sottostimatissimo compositore come Oliver Nelson?

FrancescoB (ha votato 9 questo disco) alle 15:52 del 30 aprile 2015 ha scritto:

Sì anche io non impazzisco per il Giuffre più "free" (pur ammirandone il coraggio), quasi lo preferisco in versione pastorale west coast. Oliver Nelson è a sua volta un post bopper dalle atmosfere più rilassate e vagamente cool che apprezzo tantissimo. Dolphy comunque è davvero fra i giganti, il miglior side-man (si fa per dire) mai visto o quasi...in molti strutturavano i pezzi e le atmosfere proprio per valorizzare la sua voce strumentale quasi umana e particolarissima, oltre che la sua eccentrica e complessa visione della musica.

Utente non più registrato alle 10:37 del 10 maggio 2015 ha scritto:

La ricerca su Dolphy portò anche a George Russell e a sua volta al trombettista Don Ellis un'altro artista sottovalutato, primo fra tutti, anche prima di Miles Davis, ad introdurre l'elettrificazione.

Live at Monterey (1966), Live in 3â…”/4 Time (1966), Electric Bath (1967), Shock Treatment (196, Autumn (1969),

Goes Underground (1969), Don Ellis at Fillmore (1970)

Paolo Nuzzi, autore, alle 9:00 del 11 maggio 2015 ha scritto:

Assolutamente sì, come trombettista sottovalutato e purtroppo scomparso giovane, aggiungerei anche quel genio di Booker Little. Memorabili i dischi live al five spot, Far Cry, tutti con Dolphy, nonchè il favoloso Out Front (1961)

Utente non più registrato alle 13:39 del 11 maggio 2015 ha scritto:

AriCome sopra...Don Ellis a modo suo è stato un innovatore (Gil Evans e Frank Zappa ne sanno qualcosa...), sia per il

coinvolgimento nella "third stream" (che piaccia o meno), sia, come già detto per l'elettrificazione.

Booker Little inizialmente poteva ricordare un'altro grande trombettista Clifford Brown...poi è diventato un solista più intenso, commovente, dolorosamente mesto. In pochi anni (così come il grandissimo Scott LaFaro) ha dato un contributo enorme al proprio strumento e al Jazz...

Paolo Nuzzi, autore, alle 13:52 del 11 maggio 2015 ha scritto:

Ok, sono d'accordo, ma Little stava andando oltre il linguaggio di Clifford. Se non fosse morto a soli 23 anni, chissà come si sarebbe evoluta la sua musica. Saludos

Paolo Nuzzi, autore, alle 16:32 del 13 maggio 2015 ha scritto:

Sul Musica Jazz di questo mese c'è una bella retrospettiva su Don Ellis, ottima occasione per (ri)scoprirlo!

FrancescoB (ha votato 9 questo disco) alle 11:33 del 12 maggio 2015 ha scritto:

"Out Front" è fra i dischi jazz della vita, l'asciutto e maestoso addio di un geniale ventitreenne. Azzeccato l'accostamento a Scott La Faro, due strumentisti eccezionali, ma soprattutto due vulcani di idee musicali. Brown un grandissimo ma Booker stava sviluppando proprio un linguaggio del tutto personale.

Utente non più registrato alle 13:11 del 12 maggio 2015 ha scritto:

La tromba di Little soprattutto in Out Front è lacerante...

Sarà un caso che sia Clifford Brown che Booker Little siano passati nei gruppi dell'immenso Max Roach???!!!...

Paolo Nuzzi, autore, alle 17:01 del 12 maggio 2015 ha scritto:

Max Roach, altro gigante immenso. Chi si prende la briga di recensire "We Insist!"?

FrancescoB (ha votato 9 questo disco) alle 17:21 del 12 maggio 2015 ha scritto:

E' fra i tantissimi lavori jazz di un certo peso che meriterebbero una recensione..Io cercherò di dare il mio contributo e tu Paolo sei precettato quale co-recensore!

Utente non più registrato alle 20:39 del 12 maggio 2015 ha scritto:

Ottimo...magari se vi scappa anche Percussion Bitter Sweet, Speak, Brother, Speak e Drums unlimited non sarebbe male...

Paolo Nuzzi, autore, alle 23:26 del 12 maggio 2015 ha scritto:

Oh yeah! lasciami liberare di un po' di arretrati e sono da te! Have a beautiful night, dudes!

Marco_Biasio (ha votato 10 questo disco) alle 12:35 del 26 ottobre 2015 ha scritto:

Tutto superbo. Hat And Beard e title-track da mascella a terra. Ho una predilezione assoluta per Bobby Hutcherson.

Paolo Nuzzi, autore, alle 14:44 del 26 ottobre 2015 ha scritto:

Thanks Marco. Bobby è un vibrafonista d'eccezione. I suoi dischi sono sempre mirabolanti: con un piede nel post-bop ed uno nell'avanguardia: "Happenings", "Dialogue", "Stick Up", "Components", tutti grandiosi!

Marco_Biasio (ha votato 10 questo disco) alle 16:36 del 26 ottobre 2015 ha scritto:

Ho visto ora la sua discografia. Minchie!!! Tocca mettersi d'impegno, ho capito...

loson (ha votato 9 questo disco) alle 15:03 del 28 ottobre 2015 ha scritto:

"Ho una predilezione assoluta per Bobby Hutcherson" ---> Pur'io. Bella recensione, compllimenti all'autore.

Paolo Nuzzi, autore, alle 15:24 del 28 ottobre 2015 ha scritto:

Grazie Los, detto da te è un gran complimento, visto che scrivi benissimo (per non parlare di Marco Biasio). Sono lusingato, nonché spronato a migliorarmi sempre più. Have a nice day!

FrancescoB (ha votato 9 questo disco) alle 18:42 del 27 ottobre 2015 ha scritto:

Buttati buttati Marco, i passi falsi davvero non esistono o quasi.

Utente non più registrat (ha votato 9 questo disco) alle 22:28 del 22 luglio 2020 ha scritto:

"Out to Lunch!", ovvero il disco che mi ha fatto scoprire il jazz. Ricordo ancora quando lo acquistai, in una delle mie numerose scorribande post-lezione universitaria in un negozio di dischi gestito da un simpatico signore - ma quanto in realtà triste... si sa, i negozi di dischi vanno sempre più di merda - quando vidi questa bella copertina (ok in realtà fa cacare) al bel prezzo di € 5. Ora vuoi perché fonti molto attendibili mi avvisavano che era un album della Madonna, vuoi perché un distinto vecchietto in negozio a cui esponevo le mie perplessità mi disse senza indugio "Compralo. Sì, compralo", lo acquistai. Tornato a casa lo misi su e, come dire, rimasi del tutto senza fiato.

Certamente ora ho una cultura nel merito abbastanza vasta da comprendere come non sia un disco spuntato fuori dal nulla, ma come invece esso si collochi in un punto preciso sia nel percorso di maturazione del Dolphy compositore che nell'esplorazione dell'epoca delle possibilità del jazz d'avanguardia; ma non rinnego nessuna di quelle mie prime sensazioni. Stupisce moltissimo come coesistono elementi tanto disparati come lo spirito essenzialmente free, una quasi sotterranea ma lucidissima logica compositiva, virtuosismi mozzafiato e intelligenza creativa - da parte di tutti i musicisti, davvero una schiera di fenomeni. E stupisce ancora di più che un album tanto complesso e geniale sia celeberrimo e celebratissimo anche presso la critica più marcatamente mainstream. Insomma: un vero chapeau del jazz.