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R Recensione

6,5/10

Federica Michisanti Trioness

Isk

Dapprima fu il violoncello, poi il contrabbasso… Quando si parla di jazz, ci si sofferma sempre troppo poco sulle nostre preparatissime musiciste, ma qualcosa sta (forse, finalmente) cambiando: motivo per cui fiuteremo la buona parata e spenderemo il nostro umile contributo nel merito. Seguendo una contrapposizione amata dalla critica recente, se nella produzione di Caterina Palazzi l’afflato eroico, corrosivo, è di molto superiore a quello lirico, meditativo, in quella della coetanea e concittadina Federica Michisanti le proporzioni sono esattamente rovesciate: il mood introspettivo di una musica che riflette e ragiona continuamente su sé stessa viene solo sporadicamente intorbidito da irrequieti scatti di nervosismo, leggere scosse elettrolitiche che pervadono ed accendono textures melodiche di grande pregio e profondità. Si tratta, non a caso, degli unici segmenti di “Isk” dove la composizione lascia spazio all’improvvisazione: il lampeggiare intermittente del corno inglese di Matt Renzi (più avanti anche a sax tenore, clarinetto basso e oboe) in “Impro 2”, l’atmosfera rarefatta e raccolta di “Impro 5”, l’intensità quasi sinfonica, à la Dvořák, della spiraliforme “Impro 1”, gli sfregamenti compulsivi di corde e il tintinnare pianistico in crescendo di “Impro 3”.

Il trio guidato dalla Michisanti – che con “Isk” arriva alla seconda uscita in cinque anni, dopo “Trioness” del 2012 – è, d’altro canto, un’assoluta singolarità persino nell’universo variegato del jazz italiano. Dalla morfologia della stessa formazione (così sobria ed essenziale da non prevedere nemmeno un batterista), sino alle fonti tematiche sulle quali poggia il disco (‘išq, parola araba per “passione”, sarebbe un rimando ai concetti di “forza” e “unità” che, in ultima istanza, rappresenterebbero il senso ultimo del suonare assieme), tutto sembra lontano anni luce da ogni sberleffo intellettuale, da ogni istanza iconoclasta. La nozione chiave è, piuttosto, quella di “armonia”, il muoversi assieme sempre e comunque, sullo stesso binario, alla stessa velocità (si prenda a modello la lunga, assorta “Al Jabal”). Questo approccio, se da un lato sottrae inevitabilmente dinamismo e imprevedibilità ai brani, rischiando di appiattirne focalità e prospettiva (le cellule melodiche della title track girano un po’ a vuoto), dall’altro fa apprezzare ogni intervento strumentale, dosato al millimetro, in cui ogni singola nota è studiata per trasmettere uno specifico carico semantico e semiotico (vale, soprattutto, per l’elegante piano di Simone Maggio, particolarmente efficace nel passo a singhiozzo con vista concrète di “Before I Go”). Poi c’è lei, Federica, protagonista assoluta nei primi settantacinque secondi di “Hush” e in seguito, via via, coordinatrice sempre più discreta per quanto onnipresente: suoi i contrappunti che dettano il passo swingato di “Further” (vicina a certo catalogo ECM, con Maggio nei panni del Craig Taborn di turno), le ariose sospensioni noir del quasi klezmer di “Reset” e il vivace call&response (Duke Ellington?) di “Noise Reduction”.

Avvertenza: per quanto, paradossalmente, qui dentro tutto sia levigato e temperato (in ogni accezione possibile), “Isk” rimane ugualmente un ascolto non immediato. Chi avesse bisogno di mettere la museruola al dilagare delle intemperanze free troverà ristoro per le sue orecchie.

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Voto degli utenti: 7,5/10 in media su 1 voto.
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Cappi 7,5/10

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