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R Recensione

8/10

Ghost Horse

Trojan

Ammissione di colpevolezza: un po’ per pigrizia congenita di chi è perennemente costretto ad ottimizzare i tempi, un po’ per l’oggettiva difficoltà di raccapezzarsi e farsi largo in una produzione copiosa e dedalica ma in gran parte ignota all’osservatore esterno, un po’ per la pervasiva autoreferenzialità di una macro scena che – a differenza di coeve esperienze su suolo europeo (Polonia, Londra) o oltreoceano (New York, Chicago) – non sembra ancora in grado di poter parlare ad una fascia di pubblico che non sia quella ristretta dei suoi atavici fruitori, non si parla mai abbastanza di jazz italiano. “Trojan” dei Ghost Horse è l’occasione perfetta per (ri)cominciare a farlo: non tanto perché sia un ottimo disco (ogni anno il jazz italiano, a ben vedere, ne sforna a decine), né perché si tratti di un progetto di per sé meritevole di attenzione (si tratta di un upgrade a formazione allargata dei già fenomenali Hobby Horse, con l’aggiunta della chitarra baritona di Gabrio Baldacci, della tuba e del flicorno di Glauco Benedetti e, soprattutto, del trombone di Filippo Vignato), ma perché sembra possedere tutte le caratteristiche per proporsi come testa di ponte di una nuova e possibile internazionalizzazione di un certo modo tutto tricolore (leggi: inventivo, anarchico, meticciato) di scrivere e interpretare il jazz.

Se volessimo costringerlo entro delle etichette, etichette cui peraltro fa di tutto per sfuggire, dovremmo parlare di “Trojan” come di una monade noir-core, un campo di battaglia in cui si danno appuntamento in armi stratificati arrangiamenti da colonna sonora (l’urticante hard boiled della title track, che dalle tenebre prende corpo, tra scalpi chitarristici no wave e ottoni funerei, in uno scivolare di stati d’allucinazione non dissimile dal Dementia parkeriano), finezze melodiche d’altri tempi (l’Ayler scandinavo della head per fiati di “Five Civilized Tribes”, scandita su un insistito ritmico che alterna con naturalezza 5/4 e 6/4), impenetrabili foschie ambientali (lungo l’avanzare misterico de “Il Bisonte” non si fanno fatica a percepire le indecifrabili immensità degli arcani spazi della Białowieża) e nevrotici scatti noise (lo sfrigolante build up di “Pyre” bruciato in uno spastico jazz rock votato alla distonia). Ma, per quanto si tratti effettivamente di un abusato luogo comune, “Trojan” è la classica cornucopia da cui si può estrarre sempre qualcosa di nuovo ad ogni ascolto: siano imperiose e disarticolate sciabolate elettriche che fanno a pezzi la compostezza di una raccolta sonatina da camera (“Killing The Sword”), vampate urban-twang che ristrutturano la composizione interna di un raffinato ethio-soul (“Hydraulic Empire”) o immoti slow motion cool dalle minacciose convergenze orchestrali (“Forest For The Trees”).

Ogni ulteriore parola può risultare superflua. Non rimane altro che invitare all’ascolto: “Trojan” è un disco che merita ogni singolo minuto della vostra attenzione.

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