Gianluca Figliola Quintet
It's Strictly Forbidden
Il panorama underground-jazz italiano pullula di talenti.
Formatisi sulle cattedre dei conservatori e delle scuole di musica più che nei locali di terz'ordine delle nostre metropoli, ma poco importa. Ogni genere sviluppa traiettorie proprie, e la progressiva fagocitazione da parte del circuito "colto" è destino che accomuna tutto ciò che agli albori era radicato nel clima umido e notturno dei suburban neri. Tanto più più che il jazz ha varcato la soglia di quei luoghi importanti e seriosi da qualche decennio, e allora non dobbiamo stupirci se le menti più brillanti, oggi, le partoriscono proprio quelle istituzioni (sebbene siano spesso la casa madre del vecchiume),
Talenti a iosa, dicevo; e ne sono certo perchè uno fra questi talenti potrei sposarmelo, ma anche perchè pochi giorni orsono mi è capitato fra le mani "Strictly Forbidden", eclettico disco di debutto del Gianluca Figliola Quintet.
I romani devono averci preso gusto con il jazz: se il Nohaybandtrio si è divertito a frantumare e ricomporre tutto ciò che profuma di avanguarda e di "core", Gianluca Figliola è più tradizionalista, e ha deciso di cimentarsi con la logica a geometrie variabili del bop.
Brulica di idee, il suo lavoro "proibito"; idee, virtuosismi d'annata e preziosismi senza tempo: tutto ciò che fa luccicare gli occhi alle orde di ossessivo-compulsivi capaci di dedicare anni ai vinili del genio zingaro (Django Reinhardt) e del non meno geniale Wes Montgomery da Indianapolis, qui apertamente omaggiato dal pezzo introduttivo.
Il sassofono si crogiola dalle parti del Paker meno cervellotico, a tratti forse abbraccia il calore vibrante di Lester Young. Possiede lirisimo, un gusto melodico incantevole e tonnellate di swing. Tutto il quintetto, in ogni caso, sa come muoversi dentro le armonie intricate del bop, attraverso i suoi ritmi spezzati e sregolati. Incespica sulle ottave parallele e poi si libra sinuoso fra ritmiche accattivanti e trovate originali.
Tutto ruota attorno alle movenze delle sei corde di Figliola, pulitissime e ricche di sfumature: provate "My One and Only Love" (ennessima rilettura, in ambito jazz, di una canzone popolare anni '50) cristallina e leggiadra, sospesa con maestria fra le sue trovate oblique e i suoi accordi blues, toccante ma intrisa di energia. Provate anche il gioco di incastri di "Bye Bye Wes", quasi degna del celebrato meastro, sorretta da un'inventiva immacolata ed a tratti accecante nel suo stile rigoroso.
La title-track è ariosa e ricca di colori sgargianti, un piccolo gioiello per un piccolo ensemble dagli ingranaggi oliatissimi.
Ogni brano trabocca di pathos e creatività, tanto che non si bestemmia chiamando in causa alcuni fra i maggiori cervelli contemporanei (da Cohen ai Mostly Other People Do The Killing): anche qui il paesaggio viene in qualche modo deturpato da intuizioni che tradiscono ogni previsione (il solo per chitarra elettrica della title-track), anche qui la band si muove all'unisono e origina un flusso musicale rarefatto ma avvincente (pur meno visionario rispetto alle deflagranti intuizioni degli artisti di cui sopra).
Forse è presto per gridare al miracolo, ma questi ragazzi meritano un occhio di riguardo: fosse anche solo per gli insoliti intrecci armonici di "Whisper on the Air", o per le movenze in chiaroscuro di "Tetrix".
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