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R Recensione

9/10

Grant Green

Idle Moments

Pur essendo un jazzofilo incallito, non sempre riesco ad innamorarmi della chitarra jazz.

Forse perchè, troppo spesso, mi pare di cogliere in quei fraseggi intricati un virtuosismo di maniera; ovvero, sovente leggo in quei torrenti di accordi molta intelligenza autocompiaciuta ed una indubbia capacità esecutiva che, però, non riesce quasi mai a toccarmi.

Poco pathos, poca energia, poco "sentimento" da esprimere e comunicare. E questo mi induce (limite mio, senza ombra di dubbio: lungi da me sminuire in poche righe artisti del calibro di un Wes Montgomery, giusto per fare un nome) a svalutare anche le preziosità formali e tecniche di lavori con ogni probabilità eccellenti, sotto questo profilo.

Ciò non toglie che anche io, come tutti, anche in questo campo vanti le mie vistose eccezioni: quasi superfluo nominare Django, il celeberrimo e sublime chitarrista zingaro (che oggi farebbe tremare i polsi a molti ministri delle interiora), capace di rivitalizzare un genere ed uno stile così lontani dai suoi luoghi d'origine e di vita (le carovane sospese tra Francia e Belgio, le periferie malfamate di Parigi), e di fare scuola ancora oggi.

Altra eccezione, altrettanto celebre e significativa, è Grant Green.

Green è un chitarrista non solo tecnicamente impeccabile, ma anche e soprattutto decisamente creativo ed originale. Il suo stile è immediatamente riconoscibile anche dai profani della chitarra come il sottoscritto: risulta tagliente e ricco di umori, sapiente nell'uso caldo e ricco dei toni medi, capace di giocare con le dinamiche del blues, così come di infondere nelle improvvisazioni un calore spirituale di chiara matrice soul (tant'è che la sua musica fu spesso etichettata come soul-jazz, e poi come acid-jazz, quasi a confermarne una certa affinità spirituale anche con il rock).

A sorprendere è anche la piacevolezza melodica dei suoi pezzi, indice di una fantasia fervida e di una capacità espressiva di grande impatto.

Peculiarità, quest'ultima, dovuta con ogni probabilità al suo amore incondizionato per alcuni grandi degli strumenti a fiato, primo fra tutti Bird: invero, è lo stesso Green a ricordare le notti in cui, in preda all'estasi, rinunciava alla comodità del cuscino per trascrivere, nota per nota, gli assoli intricati ed illuminanti di Charlie Parker.

Ed era impossibile che una passione tanto grande non si traducesse in uno stile alle sei corde atipico, quasi più da sassofonista che da chitarrista jazz tout court, anche in virtù della predilizione per le linee melodiche (giocate sovente sulle terzine e sulle ritmiche irregolari di derivazione bop), anzichè per le raffiche celestiali di accordi care a molti colleghi dello strumento.

"Idle Moments" è ritenuto, da moltissimi amatori, il miglior esempio del suo stile: ed io sottoscrivo in pieno, anche in ragione della qualità dei collaboratori (Joe Henderson al sax tenore e Bobby Hutcherson al vibrafono, strumento che questo disco contribuì ad imporre fra le voci soliste del jazz).

La title-track, in particolare, è un pezzo incantevole (uscito dalla penna del pianista Duke Pearson), nella cui interpretazione si ritrova tutte la spiritualità di Green, ma anche le preziosità che ne hanno reso immortale lo stile: il brano si sviluppa per quasi 15 minuti, è un blues malinconico e romantico, reinventato più volte dal chitarrista senza perdere un briciolo della sua tenue e delicata carica emotiva. Particolare anche la combinazione fra ritmiche afro-americane (acuti osservatori hanno notato somigilanze con alcuni chitarristi dell'Africa occidentale) ed atmosfera cool estremamente pacata e riflessiva, come da manuale West-Coast (Grant fu fra i pochi jazzmen di colore a dedicarsi al cool in modo del tutto soddisfacente).

Ricchissimo di pathos e colore anche il fraseggio di "Django" (dichiarato omaggio al suddetto chitarrista zingaro), ulteriore dimostrazione dell'abilità di Grant di cesellare frasi saporite ed imprevedibili senza trascendere in quel virtuosismo un po' di maniera che il sottoscritto vedere come il fumo negli occhi.

I due brani rimanenti ("Jean de Fleur" e "Nomad") risultano perfettamente complementari, e più che degni di figurare accanto ai suddetti capolavori: scorrono per tutta la durata senza risvegliare, neppure per un istante, lo spettro della noia (che spesso si nasconde dietro l'angolo, quando le improvvisazioni diventano debordanti: ma forse, e questa è una mia personale convinzione, dipende tutto dalla capacità di chi improvvisa; per cui, se ti chiami Grant Green, puoi suonare per due ore senza che nessuno sbadigli).

Ecco, spero di aver convinto tutti: questo disco è davvero senza tempo, e può incontrare il favore se non l'ammirazione di chiunque mastichi un pò di musica jazz, non risultando appannaggio esclusivo di gente molto più preparata del sottoscritto (e, ne sono certo, di molti lettori) quando si tratta di cimentarsi con una chitarra. Indi provatelo, ne vale la pena.

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Voto degli utenti: 8,4/10 in media su 7 voti.
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Clap67 9/10
B-B-B 9/10

C Commenti

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Clap67 (ha votato 9 questo disco) alle 10:36 del 25 novembre 2010 ha scritto:

Un disco meraviglioso.Per spiegare le doti di Grant Green a livello di gusto,fraseggio,feeling ci si impiegherebbe un mese.E'uno da mettere nel firmamento delle grandi stelle della chitarra jazz,insieme a Barney Kessel,Kenny Burrell e pochi altri.

Utente non più registrat (ha votato 6 questo disco) alle 21:17 del 20 luglio 2020 ha scritto:

A me, di innamorarmi della chitarra jazz, non è riuscito mai. Semplicemente, la musica è sempre di una freddezza glaciale, non riesce a comunicarmi proprio nulla. Mi dispiace.

Postscripum: la cover di "Django" del MJQ con quel vibrafono, è una paraculata di cui non sentivo affatto bisogno.