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6/10

Head Project Trio

Head Project Trio

Un sussurro, lieve. Un fruscio, di spazzole. Una tela che si costruisce e si allarga centimetro per centimetro. Tutto così perfetto, elegiaco e consonante da parere più un Mehldau plays Einaudi che un Head Project Trio play their own excerpts. La moneta che dà il la all’esordio omonimo del trio campano ricorda, spiacevolmente, la muzak per ascensori, ancor prima di tirare in ballo ingranaggi e dinamismi altri: lo sposalizio del velo armonico, l’agognata profondità da finta soundtrack, la quadratura del cerchio sempre e comunque. Tra le altre cose parla, il comunicato stampa, di “jazz sperimentale”, ma sono classicità e tradizione a plasmare brani sottilmente “popolari” – nell’accezione positiva e divulgativa del termine – che si servono di certa recente evoluzione jazzistica, cool ma non solo, come una delle tante tinte con cui spennellare generosamente una grana compositiva invero lontana da quella raffinatezza suggerita dagli arrangiamenti.

 Quando la catalessi di “Slow Heart Beat” – notturno chopiniano dell’era moderna, con il pianoforte “stoppato” di Fabio Tommasone, autore di tutti i pezzi, in co-conduzione con il contrabbasso di Luca Varavallo – si risveglia nell’esuberante logorrea à la Bollani di “Luca’s Break” pare di aver trovato, nell’alternanza, la chiave di lettura sommersa del disco. Aspirazione frustrata, dal momento che le contemplative stille malinconiche di “My Goddess” (con violoncello e vari sample vocali a segnare il passo dell’emozionalità), pur scosse e spezzate dalle profonde pulsioni swing di “Guardando Ad E.S.T.” (sul mulinare infaticabile di Raffaele Natale dietro le pelli si adatta un ventennio di jazz modale), stagnano nella lenta ballata di “Look Inside” e nel minimalismo ambientale della conclusiva “Indice Tematico”, riedizione fuori tempo massimo dell’ultima ondata new romantic.

Si percepisce la volontà di diversificare al massimo la proposta, di ampliare – per quanto possibile – uno stile giocoforza ancora monocolore, quando non direttamente monolitico. I discreti inserti elettronici di Donato Cutolo, a frastagliare sommessamente la troppo pronunciata linearità della già citata “Look Inside”, ed un brano come “On My Head” (l’Uri Caine più largamente accessibile, interpretato con foga ed impeto tutto nostrano, antiaccademico) testimoniano comunque della bontà del lavoro dell’Head Project Trio. Un suggerimento? Più spigoli e meno aperture renderebbero l’ascolto, quand’anche impegnativo, decisamente stimolante.

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