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R Recensione

6,5/10

Ian Shaw

The Theory of Joy

Uno deve fare i conti con i propri limiti.

Nel mio caso, da jazzofilo accanito, devo riconoscere di sopportare poco il canto jazz. Oddio, ci sono eccezioni importanti: la fragilità eterea di Chet Baker, il virtuosismo pirotecnico di Nina Simone, il dolcissimo, angosciante rantolo di Billie Holiday, alcune cose del vecchio Luois Armstrong.

Si noterà però che si tratta quasi sempre di cantanti sui generis: Chet Baker oggi non avrebbe alcuna possibilità di essere preso sul serio in una scuola di canto, afono, impalpabile e terribilmente malinconico quale era; Billie Holiday era tecnicamente del tutto fuori tiro, eppure ha avuto in dono una fra le voci più toccanti, direi quasi strazianti del secolo scorso; Satchmo era più gutturale e ruvido dei cantanti grunge, Nina Simone era l'unica cantante vera (e tecnicamente inarrivabile) del gruppo.

Si noterà anche che manca una voce jazz classica, quale la intendiamo oggi: sarà perché fatico a interagire con un sound che mi suona untuoso, impostato, studiato per. Lo scat, poi, va bene, ma solo fino a pagina due.

Reggo a fatica una canzone di un Harry Connick Jr., o – per scendere di un gradino – di un Michael Bublé o del nostro Mario Biondi: timbro, tono ed espressività, più che lasciarmi indifferenti, mi suonano quasi irritanti, al di là delle indubbie doti tecniche.

Ian Shaw, cantante di origini gallesi che ha superato da tempo la soglia della cinquantina, è una parziale, felice eccezione. Wikipedia in lingua britannica mi dice che ha studiato a Londra e pure a New York; dice anche che la sua carriera – che riconosco di conoscere solo in piccola parte – è già importante e piuttosto longeva.

Nel 2016, Ian Shaw mette sul mercato un lavoro di jazz vocale, e visti i precedenti, confesso di essermi avvicinato a “The Theory of Joy” con una certa diffidenza. Le sonorità cristalline e raffinate di scuola ECM non hanno aiutato a mettere da parte pregiudizi e idiosincrasie.

Per fortuna, Ian mi ha costretto a fare marcia indietro grazie a un timbro più arioso. Il suo è jazz urbano, profondamente radicato nel clima piovoso e sfocato di Londra.

Il gallese, in sostanza, ha interpretato il concetto di jazz vocale in modo meno accademico e prevedibile del previsto; ha saputo evitare la trappola del calligrafismo, risultando convincente, quando non avvincente (la lodevole dedica di “My Brother” è fra i momenti più toccanti, anche per il brillante refrain; “The Low Spark of High Heeled Boys”, quasi frenetica e graffiante, odora di Van Morrison da un chilometro di distanza).

L'accompagnamento strumentale non spicca per originalità, ma è composto, assorto, aristocratico. Il pianoforte centellina le note, seguendo pari pari certi stilemi jazz di scuola ECM; il contrabbasso è sornione e defilato, quasi impercettibile: insomma, si limita al compitino, ma lo fa più che bene.

La batteria è a sua volta un po' scolastica, ma qui non le si chiede altro: stende un tappeto di ritmi regolari e rilassati, fa ampio uso delle spazzole, puntella il 4/4 di quasi tutti i brani con precisione, senza uscire dalle righe.

L'impressione complesssiva è nella sostanza positiva, anche per i brani più swinganti e movimentati: “All This and Betty Too”, sfarzosa e broadwayana fino al midollo, con gli strumentisti che ritrovano un po' di brio quasi post-boppistico, si lascia apprezzare con naturalezza; la malinconica, quasi fatalista “Small Day Tomorrow”, è un altro momento particolarmente riuscito, quasi toccante; “Somewhere Towards Love” è ritmicamente più articolata, anche per le riuscite trovate della melodia (particolarmente jazzy e irregolare).

Il conclusivo omaggio a Jacques Brel ("If You Go Away") suggella un lavoro - magari non originalissimo ma - scorrevole, raffinato e soddisfacente.

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