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R Recensione

6,5/10

Jamie Saft, Steve Swallow, Bobby Previte

You Don't Know The Life

All’ombra del vulcanico entusiasmo che caratterizza l’attività jazzistica londinese e la sua opera di ibridazione stilistica a getto continuo, il triumvirato d’oltreoceano Saft-Swallow-Previte, incrociatosi innumerevoli volte nel corso degli anni ma costituitosi ufficialmente come ragione sociale solamente nel 2014 (anno del discreto “The New Standard”), va piuttosto alla riscoperta e alla rielaborazione dell’immensa tradizione culturale statunitense, distribuita lungo svariati decenni. Esteticamente appagante, dalla prospettiva di chi scrive, è in particolare il secondo “Loneliness Road” (2017), inciso per un classico power trio jazz piano-basso-batteria: disco conservatore quanto si vuole, ma di assoluta eccellenza melodica e graziato da una geniale intuizione, quella di allargare sporadicamente la lineup alla voce ruvida e sorniona di Iggy Pop (esperimento perfettamente riuscito e in linea con molta produzione recente dell’Iguana). Le carte tornano oggi a sparigliarsi in “You Don’t Know The Life”, per cui il gran burattinaio Saft (dai cui abbozzi strumentali nascono la gran parte degli originali qui contenuti) cede alla tentazione di organo e clavicembalo elettrico.

Dei dieci brani in scaletta, cinque sono versioni libere di standard jazz o, più semplicemente, di brani che gli stessi protagonisti all’opera hanno etichettato come significativi per la loro crescita artistica. La delicata e sottilmente inquietante melodia di “Re: Person I Knew” (proveniente da “Moon Beams” del Bill Evans Trio, anno 1962) si disintegra in un fuoco incrociato di solismo atonale, qualcosa che per un attimo sembra costeggiare la furia cieca di Slobber Pup. Al lato opposto della tracklist, la celeberrima pepita baroque pop di “Alfie”, scritta da Burt Bacharach nel 1966, essuda tutto il suo nitore armonico. Ancor più sorprendenti altri omaggi: le lascivie notturne del blues formato library della title track rimaneggiano una composizione del Tom Moore formato Moving Sidewalks (1968), mentre “Ode To A Green Frisbee” (di cui possiamo ascoltare una grande versione nello “Sharing” di Roswell Rudd e Giorgio Gaslini del 1978) è un bozzetto zappiano trasformato in studio ritmico e il classico “Moonlight In Vermont” procede su predicibili traiettorie swing. Coerentemente con la direzione impressa al materiale non autografo (ma senza alcun ulteriore sussulto) si accomodano anche gli inediti: per una “Stable Manifold” che indugia in un soul sbiancato un po’ lezioso e la tensione statica che cresce (volitivamente) in “The Break Of The Flat Land”, spiccano le circonvoluzioni liturgiche dell’organo di Saft in “Dark Squares” (che, in verità, si direbbe ispirata dalle messe elettriche di Previte).

Non è il disco migliore cui potesse mettere mano il trio, ma rimane un tassello importante per individuare la progressione della loro narrativa. Chi apprezzasse Jamie Saft recuperi in contemporanea anche “Hidden Corners”, album inciso con un quartetto di lusso (Hamid Drake, Bradley Jones, Dave Lieberman) e uscito a fine giugno.

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