Jan Garbarek
I took up the Runes
Jan Garbarek è un personaggio di quelli tosti. Esponente di punta del jazz europeo, ed anzi del jazz moderno tout court, da svariati decenni ci delizia a suon di opere taglienti, originali, molto spesso splendide.
Il sassofonista norvegese, in altri termini, è un fuoriclasse vero, di quelli che hanno già lasciato un solco profondo nella storia; e non solo per le prestigiose collaborazioni (da Keith Jarrett in poi), ma anche per la capacità di costruire un percorso estremamente affascinante e ricco, ove si sposano storie e tradizioni diverse: il jazz, l'avanguardia, la tradizione colta europea, i canti gregoriani, la musica africana, il folk delle terre d'origine, un approccio di fondo celebrale ma che non disdegna l'impatto fisico.
"I Took up the Runes" è sublime sintesi del pensiero-caleidoscopio del musicista scandinavo, e segna una tappa fondamentale, in quanto introduce la fase cosmopolita della sua carriera.
Sono sufficienti pochi secondi di "Gula Gula" per scuotere profondamente l'ascoltatore: un assaggio di minimalismo che a tratti si infiamma nei toni e nei modi, una solennità elegante ed aliena (spesso si abusa del concetto di "mondo a parte", ma qui il rimando calza a pennello: Garbarek costruisce veramente un mondo senza coordinate e ti ci porta pian piano, senza quasi che tu possa accorgertene), percussioni e sintetizzatori ad arricchire un quadro stupefacente.
Il capolavoro del disco ("Molde Canticle") si muove sopra equilibri simili, e sviluppa cinque movimenti che incorporano e rimasticano uno spunto melodico minimale: la sua è una musica paesaggistica e quasi "visiva". La cosa meravigliosa è che qui sempra di incontrare Brian Eno e Jon Hassell in un featuring "cool-jazz", siamo in un quinto mondo che materializza, con una decina buona d'anni d'anticipo, intuizioni di cui si approprieranno prestigiosi conterranei (qualcuno ha parlato dei Supersilent?), e che in qualche modo evoca anche il coevo Peter Gabriel e la sua musica del mondo.
Può sembrare troppa, la carne al fuoco, ma la grandezza di Garbarek sta anche nella capacità di trasformare una figura tanto eterogenea in un'immagine coerente, essenziale, limpida. Le radici folk della musica scandinava (in versione Sami) emergono con prepotenza nella meravigliosa "His Eyes Were Sun", che si avvale della performance vocale del cantante norvegese Ailu Gaup. Scandinavia che qui si trasfigura un po' (mi si conceda un pizzico di esagerazione) nell'Africa Nera: il brano si sforza di elaborare il concetto di musica folk totale, che non esiste eppure è ovunque. Ed i volteggi del sax di Jan sono semplicemente celestiali.
Quasi tutto ciò non bastasse, "Buena Hora, Buenos Vientos" si inventa una melodia dal sapore latino che si snoda per quasi 9 minuti senza cadute di tono. Alla fine, quasi non si crede all'etichetta: questo disco non può essere uscito nel 1990, oppure deve necessariamente arrivare da qualche galassia lontana.
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