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R Recensione

7/10

John Zorn

In Search Of The Miraculous

Peculiarità distintiva dell’ultimo biennio di uscite a nome John Zorn, generalmente agevoli ed appetibili anche al pubblico più insofferente agli spinti (non come un tempo) avanguardismi del sassofonista, è stata la continuità. Nella composizione, nelle scelte timbriche, nei musicisti impiegati di volta in volta, negli argomenti concettuali su cui imperniare il mood di interi dischi. “In Search Of The Miraculous”, uno dei dodici dischi che il polistrumentista newyorchese ha promesso ai suoi fan sul sito ufficiale della sua etichetta Tzadik entro la fine del 2010, è il risultato conclusivo di questa continua ricerca di sintesi, coerenza e distensione sonora. Escluse le acrobazie mefistofeliche della quadrilogia Moonchild con Mike Patton, lasciati da parte anche gli esotismi del binomio “The Dreamers”/”O’o”, è giunta l’ora di ripescare, direttamente dalle viscere di “IAO – Music For Sacred Light” (2003) il nucleo della magia e dei culti esoterici.

Come per intuizione – o è forse un modo di lavorare che sta diventando prevedibile? – la congrega di scatenati che ruota attorno a Zorn flette i suoi pentagrammi nella declinazione ormai prediletta: quella di un jazz sottile, spesso cedevole alle dolcezze klezmer, interamente dipendente dal piano di Rob Burger, non certo un Uri Caine dei più estrosi in quanto a zampate poliritmiche, ma capace,  tuttavia, di prendere per le corna il virtuosismo e genufletterlo alle briglie della melodia. Le citazioni dalla sterminata lista di lavori precedenti, ugualmente scannerizzati sotto le coordinate musicali di cui sopra, abbondano e non sono nemmeno così nascoste: più che “Sacred Dance (Invocation)”, un apparente – clamoroso – plagio del tema portante di “Invitation To A Suicide”, che si riprende via via con il vigoroso martellare del vibrafono di Kenny Wollesen, è “Hymn For A New Millennium” che sarà destinata a suscitare scalpore, per il suo attacco scippato alla ben migliore “Tree Of Life” (da “The Rain Horse”, colonna sonora del 2008 quivi ben conosciuta). La freschezza, specialmente per i ritmi stakanovisti tenuti dai signori in questione, talvolta può eclissarsi anche al grado di optional.

Il rovescio della medaglia, d’altro canto, è che il vecchio John, a furia di incidere materiale ostinatamente puntato sul genere che egli sente più di sua appartenenza, sta davvero imparando – certo, dire “imparare” nei confronti di uno come lui… - a curare le sfumature del risultato complessivo, elevandolo su canoni estetici di grande raffinatezza che, non senza qualche affanno ulteriore (il carillon sonnolento dell’iniziale “Prelude: From A Great Temple”, a tratti poco energico), riescono anche a coprire le magagne fisiologiche che affiorano, qui e lì. Non si può, chiaramente, non pretendere sempre il massimo da un musicista del suo stampo, forse la rappresentazione più fedele dell’idea platonica di “classe” che si possa trovare oggidì sul mercato, vizi e virtù compresi. Si trattasse di un dinosauro in via declinante ne parleremmo da tempo, ormai, come di un corpo dato per spacciato. Soprattutto, sarebbe ben difficile concepire lo swing armonico, a cascata, di “Journey Of The Magicians” – che, prendetela come sfida sul personale, voglio invitarvi personalmente a non ascoltare tutto d’un fiato! –, la sorgiva tenebrosità di “The Book Of Shadows”, volatile malinconia su arpa, xilofono e pianoforte, lo shake di “Affirmation”, dal piglio tagliente, ed in particolar modo “The Magus”, i nove minuti migliori che siano usciti dalla penna di Zorn negli ultimi cinque anni, torrenziale monologo pianistico che volteggia fra chiari e scuri, pieni e vuoti, cambi di tempo e graduali cedimenti armonici.

Insomma, è proprio vero: il lupo perde il pelo, ma non il vizio. Solo, la ricerca del miracoloso a cui casa Tzadik ci ha invitato, questa volta, non passa attraverso questa tappa.

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lev alle 12:24 del 27 aprile 2010 ha scritto:

quando ho visto che c'era una recensione di john zorn ho pensato: "mmm... chissà chi l'ha scritta?"