V Video

R Recensione

7/10

Julian Lage

Arclight

Julian Lage mi incuriosce da un po'. La sua fama di bambino prodigio della chitarra però non ci ha aiutato a stringere amicizia: temevo di imbattermi di un altro sommo virtuoso distante dal mio modo di vedere la musica (uno come Wes Montgomery: fenomeno delle sei corde, mai entrato però nelle mie).

I singoli “Nocturne” (un vecchio jazz inglese in tonalità minore) e “Harlem Blues” (uno standard di W.C. Handy, qui riproposto in una forma amplificata e più complessa, per la ricercata progressione di accordi) mi hanno facilitato il lavoro: Lage mi ha portato a spasso per vari minuti senza annoiarmi mai, e anzi rendendomi parecchio difficile l'opera di classificazione (la cosa migliore per un appassionato che vuole vestirsi da critico, perché ti constringe a spremere le meningi).

Arclight” ha completato l'opera di demolizione dei miei pregiudizi: il californiano (quasi trentenne), accompagnato dal bassista Scott Colley e dal batterista (all'occorrente vibrafonista) Kenny Wollesen, ha ulteriormente complicato il lavoro di analisi

Non stupisce quindi che “Arclight” troneggi in molte fra le parziali e onnipresenti graduatorie che vedono come protagonisti i dischi jazz dell'ultima ora.

Le cose da dire sarebbero tante. Julian trasforma in una voce jazz – dotata peraltro di un lirismo con pochi pari – la vecchia Fender Telecaster, di regola aliena al genere. E già questo segna un punto a suo favore.

Il suo virtuosismo sofisticato poi non suona mai fuori posto: Julian non spreca note e accordi, fa un uso ragionato delle proprie doti, lavorando con cura sulla manopola della tensione.

Nonostante l'età relativamente giovane, inoltre, Lage mostra una notevole padronanza della storia, ma anche e soprattutto la voglia di esprimersi in composizioni che suonano come vere e proprie canzoni: “Supera” (capolavoro), l'aristocratica “Persian Rug” o la “cubana” “Prospero” sono istintivamente avvincenti, intrinsecamente orientate verso la narrazione. Se è vero che il jazz lavora spessissimo con un singolo chorus, non tutti riescono a idearne di efficaci, e soprattutto in pochi sono in grado di farne cosa propria per trarne nuove, possibili chiavi di lettura.

L'unico paragone plausibile, anche per la tensione panamericana che serpeggia lungo molti brani (qui non si parla solo di jazz), è quello con Bill Frisell. Anche per la maestria con cui il lirismo – mai gratuito – viene messo sul piatto: “Stop Go Start”, con la batteria sorniona e gli accordi che risuonano maestosi, introversi, sembra proprio ispirata dalle idee di Bill.

Idem per l'andamento vagamente country-jazz di “Activate”, un pezzo di bravura più energico e intricato.

Lage non forza mai le maglie della musica: rimane entro i confini della tonalità e di un jazz non troppo fuori dagli schemi, pur se interpretato in chiave decisamente personale. Mi piace anche per questo.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

C'è un commento. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

Marco_Biasio alle 15:04 del 13 settembre 2016 ha scritto:

Lui è davvero un musicista top. Davvero degna di nota la recente collaborazione con quell'altro meraviglioso musicista che è Nels Cline. A tratti avverto un po' troppo autocompiacimento, un po' troppe note non necessarie, diciamo così... Ma, come dici tu, per essere un chitarrista jazz l'autocontrollo rimane comunque notevole. Bravo, bella segnalazione!