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R Recensione

8/10

Keith Jarrett Standards Trio

Bye Bye Blackbird

Keith Jarrett che omaggia Miles Davis? Per di più, suonando in  trio con Gary Peacock e Jack DeJohnette? Se vi fermate anche solo un attimo a riflettere sui personaggi, vi verranno le vertigini.

Miles ovviamente non ha bisogno di presentazioni né di celebrazioni (ma prima o poi anche io, nel mio piccolo, dovrò mettermi di buzzo buono e dedicargli due righe, obiettivamente lo sto trascurando da troppo tempo), e Keith neppure.

Già il suo viso elegante, corredato da baffetti sottili, tradisce le origini ibride, che si riverberano in una produzione musicale mastodontica.

Jarrett è l'artista multietnico e poliedrico per eccellenza, e il suo faccino mezzo slavo/ mezzo-afroamericano/ un po' panetnico pare quasi voler impersonificare e rappresentare anche visivamente questo debordante eclettismo.

Aggiungiamoci che Keith, forse, merita il titolo di primus inter pares nel mondo del jazz moderno: se si guarda soltanto ai nomi affacciatisi sulla scena dopo la metà degli anni '70, è obiettivamente difficilissimo trovare un artista, un compositore e un esecutore della sua statura.

Per la verità la sua carriera prende forma già negli anni '60, accanto a numi tutelari che rispondono al nome di Art Blakey (con i suoi Jazz Messangers) e (appunto) Miles Davis, ma troverà le sue forme di espressione più compiute nei decenni successivi, fra gli anni '70 e '90 in particolare.

Carriera che si sviluppa in territori prettamene jazz, quindi. Fra le sue muse si annoverano il melodico Paul Bley, il rivoluzionario malinconico Bill Evans, l'improvvisatore radicale Cecil Taylor. Ma anche la chiesa afroamericana, e i pianisti più legati al suo linguaggio come Horace Silver. Tutto vero.

Ma è altrettanto vero che basta un ascolto distratto, a uno qualsiasi fra gli innumerevoli lavori di Jarrett, perché una domanda ti frulli in testa: si tratta proprio un muscista jazz?

Le sue origini se ne stanno tranquille dalle parti di New Orleans, o meglio della Cinquantaduesima di New York (dove un manipolo di pazzi nel corso degli anni '40 decide di cambiare i connotati alla musica contemporanea a forza di calci nel sedere, iniezioni di blues e radicalismo politico). I numi tutelari sopra citati, del resto, hanno origini inequivoche. Anche la predilizione per un linguaggio spontaneo, per la creazione istantanea, è chiaramente figlia di un approccio jazz alla musica.

Ma se strotoliamo la mappa che racchiude tutto l'universo Jarrettiano, ci troviamo molto altro: le radici gospel e soul, il calore del blues; l'intensità lirica del suddetto Bill Evans, ma anche i virtuosismi che colmano di soggezione di gente come Art Tatum e Oscar Peterson. La rigorosa logica compositiva di tale Sebastian Bach, il suo culto per la perfezione delle forme (rimasto senza eguali), la capacità visionaria di molta avanguardia. E ancora, le intricate ritmiche irregolari ed i tempi dispari dell'Europa orientale, retaggio forse delle origini ungheresi della famiglia. Accordi complessi, rivolti e architetture di chiara ascendenza europea si librano con sfumature gospel, soul e ragtime, abbracciano tutto lo scibile umano.

Quel che sbalordisce veramente, è che tutto questo poliedrico eclettismo suona sempre e comunque Keith Jarrett: quasi che il pianista fosse un genere musicale a sé stante, più che un interprete.

Ecco allora che parlare di musicista totale non è proprio da pazzi furiosi: Jarrett è quanto più si avvicina a questa fantomatica ed un po' inquietante figura. Sia quando decide di fraseggiare in modo assorto e metidabondo, sia quando (più spesso, a dire la verità) ti rovescia addosso un torrente di accordi che non puoi definire in altro modo se non come un rigoglioso flusso musicale (ciò che avviene in alcuni fra i suoi lavori più celebri, penso al Concerto di Colonia: durata spaventosa e la noia imbronciata in un angolino, perché qui non c'è trippa per gatti).

Nel 1993 Jarrett è da tempo immemore stella di prima grandezza del firmamento jazz, ed è allora giusto che siano le sue mani ad omaggiare Miles Davis, da poco scomparso e qui rievocato nel suo stile sottilmente elegante e inafferraibile.

Nei 18 minuti abbondanti di “For Miles”, unico brano firmato interamente dal trio, Keith dismette per un po' i panni del musicista torrenziale e si avvicina con discrezione al mondo soffuso di Miles Davis, mentre Jack mette da parte la consueta coltre schiumosa della batteria jazz per mettersi a picchiare quasi fosse un musicista tribale. Ne esce qualcosa di stupefacente, che finisce troppo presto: per diversi tratti si ha infatti l'impressione di assistere a un piccolo evento.

Il resto del disco è un gigantesco applauso non solo alla storia del jazz, ma anche a tutta la tradizione degli standard, che da sempre costituisce territorio di caccia per il pianoforte di Keith: si inizia con la vivacissima lettura di “Bye Bye Blackbird”, celebre canzone pubblicata da Roy Henderson del 1928, che vanta fra i numerosi interpreti anche gente del calibro dello stesso Miles, di Bing Crosby, di Joe Cocker, Nina Simone, Rickie Lee Jones, Sinatra.

Altro classicone strappalacrime è “You Won't forget me” (pezzo che porta la firma di Kermit Goell e Fred Spielman), che Keith interpreta in modo discreto, scegliendo per una volta di non avvolgerci nel consueto marasma di accordi e note, quasi non volesse dare troppo nell'occhio.

Obbligatoria è pure la citazione di “Straight No Chaser”, gemma uscita dalla penna di Thelonious Monk che Jarrett riprende, assimila e trasforma quindi in una composizione propria: il suo virtuosismo senza precedenti arricchisce ulteriormente il quadro del Monaco, il suo tema spigoloso e imprevedibile, i suoi intervalli inusuali e gli accordi strampalati, che possono comparire soltanto nella mente di un genio e/o di un pazzo (Monk, per inciso, era entrambe le cose).

Miles Davis era una pietra magnetica”, e ha scritto a caratteri cubitali la storia del jazz: così ci dicono le note di copertina firmate dallo stesso Jarrett, e ovviamente noi non possiamo che essere perfettamente d'accordo. Certi che, da lassù, il vecchio musone avrà sorriso non poco, ascoltando l'omaggio di uno fra i suoi maggiori collaboratori ed eredi.

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lev alle 7:56 del 12 novembre 2011 ha scritto:

ecco è proprio quello che ti volevo suggerire io, quand'è che cominci a recensire il divino? . questo non l'ho ancora ascoltato. il mio jarrett preferito è quello del quartetto europeo. francesco hai mai ascoltato belonging? se l'hai fatto cosa ne pensi?

FrancescoB, autore, alle 9:01 del 12 novembre 2011 ha scritto:

Eh no belonging mi manca, così come molti lavori di Jarrett (del resto la sua è una discografia sterminata!).

Su Davis dovrò rimediare prima o poi, magari con la collaborazione di jazzofili doc come Loson

Totalblamblam alle 19:50 del 13 novembre 2011 ha scritto:

Julian ma due parole per la sezione ritmica no? sembra a come ne parli tu di un disco solista di Jarrett senza Gary Peacock & Jack DeJohnette...perplesso

FrancescoB, autore, alle 20:38 del 13 novembre 2011 ha scritto:

Beh qualcosa ho scritto dai. Il problema è che sono Jarrett-centrico e trovo sia lui il protagonista chiave, o almeno quello che riesco ad interpretare e decifrare meglio nell'ambito dell'opera. Che poi gli altri siano fondamentali non lo metto in dubbio, ma lo strumento cardine, la prima voce, è sempre il suo pianoforte.

Ben felice comunque se vuoi aggiungere qualcosa tu, le mie recensioni sono tutto fuorchè completissime ed impeccabili, spesso sono molto condizionate dalle impressioni personali

Totalblamblam alle 21:24 del 13 novembre 2011 ha scritto:

dovrei risentirlo il cd è in italia, magari è come l'hai sentito tu ... e gli altri qui hanno "poco" spazio non essendo il trio dal vivo dove le dinamiche sono più sciolte e i momenti solisti più accentuati

Utente non più registrato alle 14:37 del 3 giugno 2013 ha scritto:

Beh! I dischi del "quartetto americano" come The Survivors' Suite e Eyes of The Heart sono fantastici, soprattutto quando Jarrett lascia il soprano e le percussioni e si dedica al suo strumento, lasciando spazio ad un ispirato Dewey Redman.