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R Recensione

6,5/10

Keith Jarrett Standards Trio

Somewhere

Nella faida eterna fra classici e romantici, Jarrett è fra i pochissimi artisti capaci (nonostante l'impronta chiaramente classica: è uno che la sa lunga) di mettere d'accordo un po' tutti.

Con il suo trio delizia gli appassionati di jazz (e non solo) da oltre un trentennio, rivisitando instancabilmete l'universo degli standard. Il trio si immerge nel subconoscio collettivo, si dedica alla riscoperta di quel patrimonio atavico comune a tutti coloro che hanno iniziato a cimentarsi con il jazz alcuni decenni orsono. "Somewhere" immortala un concerto tenutosi a Losanna nel 2009, ed è sempre un bel suonare.

Il piccolo genio ha mutuato dal grande Bill Evans la concezione democratica del trio, per cui anche contrabbasso e batteria contribuiscono vivacemente alla costruzione del flusso sonoro, si conquistano i propri spazi senza snaturare la struttura della canzone.

Il rischio per Jarrett, Peacock e DeJohnette, è solo quello di accasciarsi sul calligrafico: gli standard sono porti sicuri, ma a volte delimitano con un rigore eccessivo il perimetro, si trasformano in un fardello pesante.

"Somewhere" cerca di scansare il problema mettendo a fuoco un discorso musicale elegante e lievemente più libero e imprevedibile. Jarrett non ha mai compreso né sposato la logica illogica della new-thing e delle avanguardie jazz, eppure la sua improvvisazione totale – anche qui – non suona praticamente mai ingessata. Le trame sono più rarefatte, suggeriscono affinità con la new-age più evoluta (che il nostro ha patrocinato indirettamente sin dai tempi dei concerti di Vienna e di Colonia), Jarrett mostra il suo consueto repertorio: trilli, scale su scale con tanto di piccole (ma decisive) variazioni. I passaggi cardine degli standard prima riveriti, e quindi progressivamente divaricati e smantellati in parti "libere".

"Somewhere Everywhere" è emblematica: diciannove minuti di trame ariose e cariche, in cui la fantasia di Jarrett rende quasi irriconoscibile il tema centrale, arrovellandosi in un discorso ricamato da lievi bagliori, progressioni torrenziali, chiaroscuri e pathos crescente. "I Thought About You" (ballata del 1939: Keith è una piccola enciclopedia) suona più toccante e malinconica, "Deep Space Solar" è stupenda e inafferrabile, tanto suona dilatata, lievemente impressionista.

Non ci sono riempitivi, nonostante la lunghezza dei brani: ed è un bene, perché questo significa che i tre nonni sono ancora in piena forma. Il tavolo da briscola del bar dovrà aspettarli ancora un bel po'.

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