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R Recensione

8/10

King Tears Bat Trip

King Tears Bat Trip

Leggi “King Tears Bat Trip” e subito pensi ai fricchettoni: personalmente mi sono figurato un ibrido fra il sarcasmo iconoclasta di Frank Zappa e il non-sense del Capitano; ibrido studiato appositamente per farti arrovellare senza risultato.

Scopro invece che la band di Seattle, quando ha scelto la ragione sociale, ha semplicemente omaggiato una località di Houston e un fenomeno frequente in quell'area del Texas (una sorta di invasione di pipistrelli in stile Hitchcock).

E scopro soprattutto che la musica dei sette ragazzi di Seattle è straordinaria: fricchettona nel miglior senso possibile, perché proiettata nel futuro e capace di suonare originale e gioiosamente indipendente.

Il jazz più radicale negli ultimi anni ha regalato perle autentiche, rivelando la persistente vitalità di un universo che non esito a definire in ebollizione e sempre più underground oriented.

In un contesto simile, la band di Luke Bergman nel 2012 si è conquistata con la forza l'attenzione del pubblico più esigente e meno vincolato a un rigido accademismo.

Bergman omaggia il jazz più oltraggioso e lo catapulta nella tempesta tecnologica contemporanea. Basti pensare che il percussionista Brandon Lucia fa ampio utilizzo di uno strumento elettronico di sua invenzione, il “chango”, un software capace di trasformare in note le immagini che elabora. Siamo abituati al processo inverso, e ne abusiamo spesso anche nelle recensioni perché viene naturale glorificare il potere immaginifico della musica. La storia della critica è una sorta di tentativo – a volte vano, a volte più riuscito ed efficace – di tradurre i suoni in rappresentazioni figurative.

Lucia si muove in direzione diametralmente opposta e sarei curioso di conoscere i meccanismi che presiedono il fuzionamento del suo “chango”: qui mi accontento di rivelare nel secondo brano (“Elevenogram”) il software a un certo punto rigira il suono come un guanto, lo distorce, ribalta anche l'ascoltatore.

Ma veniamo alla band nel suo complesso: Bergman si è circondato di quattro batteristi, disponendoli rigorosamente in cerchio per accentuare la carica propulsiva della musica. Il leader rivela di aver suonato hardcore punk da ragazzino, e sembra voler conservare la spinta ritmica del punk più irruento per frantumarla e arricchirla di figure più complesse (la lunga intro di “Elevenogram”, un po' latin jazz, un po' marcia, un po' rock pesante; ma anche la sezione centrale – poliritmica e africana come non mai - di “Stolen Police Car”).

Il sassofonista tenore Neil Welch recupera il discorso di Albert Ayler (influenza sbandierata, non rivelo nulla di nuovo): lavora su temi folclorici e spunti da grass band per costruire un universo sempre più dilatato e contorto. Anche Welch, come il genio dell'Ohio, Coltrane o Sanders fa ampio uso di tutte le possibilità fisiche del legno: prima torna ossessivamente sullo stesso giro, in una sorta di marcia paesana di proporzioni cosmiche. Poi lo scompone in mille pezzi, ricorrendo a distorsioni, sovracuti, grugniti: la seconda parte di “Stolen Police Car” è un saggio della sua elaborazione strumentale e della sua abilità nel costruire crescendo cacofonici.

Bergman accompagna con una chitarra accordata in modo particolare (tutte le corde hanno lo stesso spessore) che suona in modo “corale”, partorendo una sorta di orgia di power chords amplificati e scaraventati nell'etere. In tal senso, il leader sembra ispirarsi ai padri dell'underground del nordovest, tanto che ha parlato di free jazz che guarda alla scena alternativa di Seattle e al DIY che dominava lo stato di Washington prima che MTV riscrivesse la storia.

Siamo distanti anni luce, anche in termini di conoscenze e di capacità strumentali, ma “King Tears Bat Trip”, con i suoi quaranta minuti di improvvisazione allucinata, eppure rigorosamente programmata, è una sorta di evento beat: e allora pensare alla lezione morale di Calvin Johnson non è del tutto innaturale.

Questa è musica che fa della libertà espressiva il punto di forza, e che pure riesce nell'intento di evitare i contorsionismi di maniera che a volte castrano l'efficacia della proposta, quando ci si addentra nel perimetro dell'avanguardia jazz.

Fermi restando i presupposti di partenza, in buona parte diversi, negli ultimi anni solo Colin Stetson o Matana Roberts hanno raggiunto risultati analoghi, in termini di audacia.

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Voto degli utenti: 7,8/10 in media su 2 voti.
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Marco_Biasio (ha votato 8,5 questo disco) alle 15:50 del 7 marzo 2018 ha scritto:

Disco bellissimo, fra le mie uscite free jazz preferite degli ultimi dieci anni. Tantissime le idee geniali: il recupero delle head ayleriane, l'utilizzo del chango e della chitarra detuned, lo strapotere ritmico... La melodia centrale di Stolen Police Car è un classico immediato. Grandioso recupero, Francesco!

FrancescoB, autore, alle 17:56 del 8 marzo 2018 ha scritto:

Grazie, al tempo l'avevo - criminosamente! - snobbato, mi sono rifatto negli ultimi mesi. Fra i dischi jazz più importanti del decennio a mio avviso.