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R Recensione

8/10

Luca Flores

Where Extremes meet

Piano, Solo” offre una versione – ritengo – abbastanza credibile di Luca Flores.

La sua vicenda umana e artistica viene restituita in tutta la sua dirompente complessità, il film dà vita a una rivalutazione colpevolmente tardiva, direi quasi una riesumazione, cui contribuiranno anche Veltroni con un libro (qualcosa di buono l'ha fatto pure lui) e Simone Cristicchi con un brano.

A prescindere dalle rivalutazioni postume però, perdonatemi, il problema è un altro: Luca Flores merita la nostra eterna riconoscenza perchè è stato un musicista senza eguali, da sempre ingiustamente sottovalutato anche e soprattutto nella sua terra natìa.

Flores è un pianista colto e raffinato, le cui mani sono capaci di un tocco perlato unico. Flores ha contribuito in modo importante a scrivere pagine di commovente bellezza, a disegnare i contorni della via italiana alla musica jazz. Ha collaborato con una miriade di musicisti di valore, e quindi è profondamente ingiusto che sia stato per lungo tempo condannato a un anonimato crudele, dal quale lo ha - solo in parte - salvato il suddetto tributo cinematografico.

La biografia di Flores assomiglia in modo terribile a quella di uno fra i più grandi musicisti del '900, quel Bill Evans che – con le sue particolari modulazioni accordali, la quieta disperazione, un lirismo senza pari, una straordinaria capacità di cavare ogni possibile umore dagli standard - ha deviato il corso della musica jazz in modo gentile, eppure profondo e incisivo quanto quello dei coevi rivoluzionari (Coleman, Coltrane, Davis & C.)

Flores, proprio come Evans, porta sulle spalle il peso del mondo intero (tanto da togliersi la vita prima dei quarant'anni, in modo atroce), e nel suo caso il turning point, la causa del male oscuro sta nella prematura perdita della madre, scomparsa in un incidente stradale quando Luca ha cinque anni.

Palermitano di buona famiglia, figlio di un geologo di fama internazionale e reduce da un'infanzia sempre in movimento (pur se segnata dalla tragedia), Flores si fa luce nei territori quasi vergini del jazz italiano negli anni '70, quando è un ragazzino. E colpisce subito gli osservatori più avveduti, non solo per i modi gentili e il portamento nobile: Flores studia approfonditamente, si dedica anima e corpo alla musica che arriva dall'America, e capisce rapidamente di poterci mettere qualcosa di proprio.

La sua capacità di improvvisare appare in effetti subito fuori dal comune: il suo pianismo non è avvolgente e torrenziale, ma cammina in punta di piedi. E' sempre leggibile, limpido: eppure vasto, polimorfo, molto personale.

Flores professa una sincera ammirazione per i complessi incastri bop di Bud Powell, così come per le sinistre cacofonie della musica di Monk, tanto fanciullesca nelle premesse, quando incredibilmente complessa e strutturata negli sviluppi. Flores guarda anche al jazz lui contemporaneo, e mostra in effetti una chiara predilizione per i balzi nel vuoto e per l'approccio percussivo di McCoy Tyner, specie nell'utilizzo dei bassi e nelle rapidissime linee melodiche scolpite con la mano destra.

Ma in lui rivedo anche l'inquietudine profonda e solenne di Bill Evans: la musica di Flores è raffinata, ma non trova pace. La sua è una malinconia che stringe il cuore.

Come detto, Luca è di origini palermitane, ma si forma Firenze (al Conservatorio, dover tornerà come insegnante). E poi se ne va a Roma, dove conosce il suo rovesciamento simmetrico, in termini di temperamento. Un altro spirito tormentato, figlio però di una realtà umana e sociale radicalmente diversa.

Forse è proprio questa incolmabile distanza che li porta subito a legare come fossero fratelli, e quindi a incidere insieme “Where Extremes meet”, volutamente profetico sin dal titolo (il disco vede la luce nel 1987). L'amico-musicista in questione è Massimo Urbani, da molti ritenuto il massimo talento puro mai sbocciato nello stivale, in ambito jazz.

Sul tubo si trova uno splendido video, girato in una fabbrica abbandonata credo a fine anni '80, dove si può sentire l'illustre parere di un jazzista americano (non ricordo il nome), che manifesta la propria ammirazione sconfinata per Urbani: “Lui è un fenomeno perché sente la musica, non sa nulla di armonia, non ha dovuto studiare: lui sa dove portare i brani, lo sente con l'orecchio.”

Urbani è un eroe proletario, il figlio di una Roma degradata più che popolare. E' uno spirito (troppo) libero, uno che fa amicizia con Chet Baker, vola a New York e si addormenta su una panchina di Central Park in overdose. Flores, come detto, è il suo rovesciamento simmetrico: educato, forbito, inverosimilmente raffinato e gentile, laddove Urbani è una pentola in ebollizione, un chiacchierone anarchico e inarrestabile, piegato dalla dipendenza dall'eroina; quasi il Dean Moriarty della musica jazz italiana, ma con l'allegria che si trasforma troppo resto in una lucida disperazione.

I due si ritrovano uno nell'altro perché sono tormentati dagli stessi fantasmi, anche se li combattono in modo radicalmente diverso.

“Where Extremes meet” è il loro capolavoro comune, uno fra i dischi più interessanti e moderni mai pubblicati in ambito jazz, nel nostro paese. Alla riuscita dell'opera contribuisce tutto il Matt Jazz Quintet di Flores. Luca firma le composizioni, dirige, fiuta l'aria e indirizza la musica.

Il suo pianoforte, ad esempio nella lunghissima, articolata title-track, mostra un eclettismo senza pari: spunti melodici raffinati e traboccanti di frizioni interne, un tocco impareggiabile (che suona al contempo staccato e legato), passaggi più ombrosi e intricati, quasi di scuola monkiana, melodie semplici e cristalline tirate a lucide e restituite in vesti sempre nuove.

Urbani offre il suo essenziale contributo anarchico incendiando continuamente il sound: Massimo è tendenzialmente estraneo al free, eppure lungo al title track il suo movimento arruffato e frenetico, che non disdegna l'utilizzo di tutto l'armamentario offerto dal sassofono in termini di rumori e di asperità, regala al brano un incredibile dinamismo, degno della musica libera. Il momento migliore di Massimo arriva in ogni caso con "Land of No Return", esibizione di sfrenato coltrane-aylerismo che conferma lo stato di grazia assoluto del fuoriclasse romano.

Ogni pezzo meriterebbe un'analisi approfondita, mi limito qui a citare i miei preferiti: la scatenata “Matt Samba” è un saggio delle abilità ritmiche di tutto il quintetto, oltre che della lucidità di Flores in sede di regia. L'introduzione, affidata solo alle sue mani, è momento di luccicante bellezza: dopo cinquata secondi irrompe il quintetto e Urbani si prende la parte principale, soffiando tutta la sua energia nel suo strumento stentoreo. Massimo è tendenzialmente fedele al tema di base, continuamente rivisitato con fantasia mentre il suono cresce, si fa quasi fisico, pieno, e alterna le sue frasi gonfie ai volteggi di Flores, mai così a suo agio e mai tanto tyneriano nei movimenti incessanti della melodia.

Il capolavoro, in termini di lirismo, è la celebre “How Far Can You Fly?”, illuminata dalle evoluzioni del flauto di Nicola Stilo, tutta ariosa e inafferrabile mentre Flores, instancabile, stende un tappeto di chiaroscuri e di bassi ostinati, e mentre i piatti della batteria rilasciano una morbida schiuma.

Tyner's Mirror” omaggia l'idolo che porta il suo nome e si apre in un densissimo crescendo sopra le quattro note reiterate del basso. Il brano porta una relativa quiete, qui Urbani non c'è e quindi il suono risulta più misurato, meno esplosivo: tutto resta nelle mani di Flores, che gioca principalmente con le sonorità gravi del pianoforte.

Il lavoro si lascia assaporare e scoprire passo dopo passo. Credo siano necessari numerosi ascolti per coglierne in pieno il mood, i contrasti emotivi, le modulazioni interne (la dove si incontrano gli estremi), la ricchezza delle trame (solo la title track è una suite di complessità indicibile).

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Marco_Biasio alle 14:01 del 20 agosto 2015 ha scritto:

Lo ascolterò con piacere. Vorrei prima recuperare Piano, Solo per avere un'idea a tutto tondo dell'uomo e del musicista. Grazie della segnalazione Francesco!

FrancescoB, autore, alle 15:38 del 20 agosto 2015 ha scritto:

Secondo me anche il fil merita Marco..poi mi dirai! Il disco è buono per davvero