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R Recensione

7/10

Marquis Hill

The Way We Play

Scopro l'acqua calda se dico che il jazz ha varcato la soglia dell'accademia da tempo, e non solo negli USA.

Con pro e contro del caso: da un lato, i musicisti hanno la possibilità di formarsi in modo professionale, e gli sterminati archivi un tempo riservati a pochi eletti oggi sono accessibili a una marea di musicisti e di critici/appassionati; d'altro canto, la spontaneità della musica afroamericana, a torto o a ragione considerata da decenni la sua marcia in più (tutta la tiritera del legame con la strada e con l'autenticità, che rischia di sconfinare nella retorica, ma che per qualche tempo ha avuto basi solide su cui poggiarsi), rischia di anestetizzarsi.

Il jazz era figo perché è sempre stato distante dell'esecrato mondo delle scuole d'arte e dell'istruzione accademica (anche per motivi razziali, va detto: basti pensare a tutti gli uomini del free accolti calorosamente in Europa, dopo aver ricevuto pesci in faccia in patria). Ecco, sono almeno trent'anni che le cose funzionano diversamente.

Fino a un certo punto, però.

Per fortuna, infatti, la cultura afroamericana sembra possedere un quid che le consente di prendere le distanze dal prosaico e dal professionsmo imperante, almeno entro certi limiti. Quando noi visi pallidi abbiamo investito su funk e soul, incorporandoli nell'elettro pop, i neri hanno abbandonato in massa certe sonorità per virare in direzione hip-hop, e poi hip-tutto.

Con il jazz forse è accaduto qualcosa di simile: mentre i nostri fratelli bianchi d'america si sono sforzati di canonizzarlo, riuscendoci in buona parte, i musicisti più coraggiosi e intraprendenti (a prescindere dal colore della pelle, per fortuna: parlerei di “neri” quasi come di una categoria dell'anima) hanno intrapreso strade personali, di fatto dando il la alla fusion che domina questo ultimo lustro, anche in ambito jazz.

Ce l'hanno fatta sotto il naso, ancora una volta: hip-hop, neo-soul, ritmi latino-americani (gli immaginifici paso doble & C. già caricati sul carrozzone del jazz da un certo Charles Mingus) e anche l'elettronica più evoluta (basti pensare all'influenza seminale di un Flying Lotus) oggi fanno parte del lessico jazz. Ne hanno alterato fraseologia e sintassi.

Marquis Hill da Chicago ha il pregio di mettere d'accordo l'accademia (viene fuori a pieni voti dall'istituto dedicato a Thelonious Monk, e dal punto di vista tecnico è straordinario) con la vitalità naturale della musica jazz. “The Way We Play” è un dichiarato omaggio alla storia del genere (specie nella Wind City), tanto che consta solo di standard, o comunque di classici (l'intricata, spigolosa "Straight, No Chaser" di Monk; le lunghe arcate modali di "Maiden Voyage", firmata da Hancock; la svenevole "My Foolish Heart", con tanto di notevole performance vocale).

Ma al contempo elabora un linguaggio personale, e proietta diverse fra le intuizioni contemporanee della musica afroamericana in un contesto post-bop.

La struttura dei brani non risulta rivoluzionaria, salvo rare eccezioni: Hill, circondato da cantante (in un paio di brani), batterista, xilofonista e sassofonista, sviluppa il discorso improvvisativo all'interno delle possibilità armoniche offerte dal brano di riferimento. Recupera diversi stilemi boppistici: gli unisono dei fiati su tempi veloci, l'alternanza delle voci principali negli assolo, la canonica struttura aaba, con le variazioni del caso.

Le cose cambiano un po' dal punto di vista ritmico: in diversi brani, fanno capolino ritmiche di origine brasiliana (merito anche del coloratissimo fraseggio dello xilofono, che introduce la scattante “Bulls Theme”, dove una voce ci presenta gli strumentisti), altrove le sincopi discendono verso l'universo hip-hop, evocando (in forma magari smussata e più tradizionalmente gradevole) gli incastri complessi e trascendentali (benché un tantino rigidi) di Steve Coleman.

La tromba del protagonista chiave ha un sound particolarissimo: se il linguaggio è – come visto – di chiara derivazione bop e post-bop (nulla di nuovo sotto il sole, fin qui), il timbro esibisce una varietà stilistica ragguardevole. Da un lato, il fraseggio lievemente slabbrato e incline al ricorso di figure ritmiche rapidissime e irrazionali evoca Freddie Hubbard. Dall'altro, la timbrica calda, il colore e la struttura meno astratta del previsto, che valorizza la leggibilità delle melodie, sembrano quasi retrocedere a un jazz pre-boppistico, sulla falsariga del concittandino Lester Bowie.

La cantabilità ad ampio spettro dello strumento, che in tal senso nulla ha da invidiare a quella del sassofonista (che disegna ampie strutture di marca sempre post-bop), regala al disco un quid pluris: il fraseggio di Hill ha i contorni del solismo di Woody Shaw, forse il primo in grado di adattare intervalli ampi e strutture studiate per il sassofono sulla tromba.

Ultimo elemento non da poco: i brani sono sempre godibili, gradevoli, ritmicamente vivacissimi (l'intreccio fra percussioni sudamericane e il rapidissimo fraseggio degli strumenti a fiato non concede tregua, pur navigando sempre intorno a un registro “medio”).

Per il sottoscritto l'ennesima rivelazione dell'anno in un contesto che si conferma vitale come non mai. Hill finisce dritto fra i fuoriclasse del jazz contemporaneo.

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akyro alle 11:22 del 31 dicembre 2017 ha scritto:

ottima recensione su quello che ricorda la musica di questo artista e i suoi riferimenti, ma non c'è accenno ai musicisti che suonano con lui nel 2016!?

FrancescoB, autore, alle 11:46 del 31 dicembre 2017 ha scritto:

Ho provato a descrivere i brani più interessanti, non ho ritenuto di particolare importanza citare i collaboratori, ma se vuoi completare la recensione sotto questo profilo sei il benvenuto