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R Recensione

8,5/10

Massimo Urbani

Dedications to Albert Ayler & John Coltrane

Il jazzista italiano più bravo di tutti? Massimo Urbani.

Lo sento dire da una vita, per la verità, ma per anni non ho colpevolmente approfondito la sua opera (escludendo la fase Area), facendo mio un radicato pregiudizio per cui il jazz vero, rivoluzionario e valido è per forza di cose americano. Tutto il resto, fatta eccezione per qualche gigante contemporaneo, è roba secondaria, magari buona per qualche musicista vero, che vuole studiare la tecnica: ma niente a che vedere con l'energia dirompente e il genio creativo dei grandi solisti, compositori e interpreti degli USA.

Mi ero sbagliato. Massimo Urbani da Roma, per tutti archetipo del musicista maledetto, tutto genio e sgregolatezza (tanto che è stancante dover ritornare su tali cliché anche in questa sede), è uno dei talenti più cristallini del panorama jazzistico mondiale. Sì, avete letto bene: non parlo della nostra Italia, parlo del Mondo.

Arrivo subito al dunque: Urbani è (era: se n'è andato a 36 anni, nel 1993, per un'overdose di eroina) un mestro del sax contralto, che maneggia come pochi altri, ma più che altro sembra animato, nelle sue performance, da un'energia mistica, quasi trascendentale. Un'energia che dona alla sua musica un impatto impressionante, da cuore in gola: la scelta di Coltrane come idolo non era e non poteva essere casuale.

Nel 1980 il giovanissimo romano (ha 23 anni) bazzica da tempo nel giro del mondo jazz e rock alternativo della Capitale. L'amico di vecchia data Fabrizio Cecca, oltre a descriverlo come una persona gentilissima, di una bontà sconfinata, a dispetto della retorica del  "dannato", assicura che a 15 anni aveva una padronanza tale dello strumento e del linguaggio da "poter suonare con Miles". Un altro grandissimo sottovalutato come Mario Schiano, altro contraltista rivoluzionario e più incline al linguaggio free, giura poi che addirittura a 11, 12 anni questo già avesse tutto in testa, tanto da indurre il maestro a precettarlo per il suo "Sud" (inciso quando Massimo ha 16 anni).

La precoce maturità di Massimo, in effetti, emerge prepotente sin dai primissimi lavori: a 17 anni Urbani dà alle stampe "Jazz a Confronto" e non si crede alle proprie orecchie, non solo considerando l'età anagrafica, ma anche la particolare epoca in cui il lavoro viene concepito. Oggi anche l'ultimo dei pigri come il sottoscritto impiega dieci secondi a reperire ogni capolavoro jazz mai pubblicato sul globo, ma presumo che all'epoca fosse un tantino più complicato, per il figlio di un bidello che vive a Monte Mario, ascoltare Charlie Parker, John Coltrane e Albert Ayler per innamorarsi dell'uso funambolico e rivoluzionario che questi facevano del sassofono, alto o tenore che fosse. Aggiungiamo poi che Coltrane e soprattuto Ayler ancora oggi risultano scorbutici, indigesti e poco decifrabili per una vastissima parte del nostro pubblico: un amico, musicista serio e di valore, mi ha confidato che "il jazz non fa parte della nostra cultura, che adotta altri parametri diversi, regole diverse per definirsi: è normale che non piaccia più di tanto, ai non adepti". Immagino come potessero suonare a un ragazzo di 17 anni negli anni '70, quando anche Who e Rolling Stones erano un pugno nello stomaco.

Probabilmente sbaglio prospettiva, ragiono "male" perché ovviamente non sono Massimo Urbani: per lui il linguaggio libero, versatile, immaginifico del jazz era probablmente qualcosa di facile da assimilare e da rielaborare. Il jazz era una cosa naturale.

Nel 1980 il sassofonista incide e pubblica  per l'indipendente Red Records il suo lavoro più importante (parliamo, lo ripeto, di un 23enne), profetico sin dal titolo: "Dedication to Albert Ayler & John Coltrane".

Per la verità, Massimo si addentra in territori puramente free, liberi da un vero centro tonale e buttati alla ricerca della dissonanza e di un fraseggio del tutto eterodosso, solo in pochi momenti. Il suo linguaggio sembra più in bilico (cito Zenni) fra l'ortodossia bop di Charlie Parker e la libertà di Trane (di cui rilegge la ballata "Naima", da "Giant Steps", con impressionante facilità). Ayler viene omaggiato più che altro nella scelta di alcuni temi folklorici, quasi fanciulleschi, di origine popolare, riebalorati poi in lunghe, complesse deflagrazioni di note e di accordi liberi, senza tuttavia mai imboccare la strada dall'atonalità. Il suo jazz rimane intrinsecamente italiano, non disdegna la melodia (la dolce "Soul Eyes"), e peraltro gioca spesso con il "tempo rubato", in quanto modifica ripetutamente la durata delle note del chorus di base, pur restando all'interno della stessa misura, mostrando così una notevole capacità di assimilare e di rileggere il materiale a disposizione, personalizzando profondamente il discorso.

L'esito complessivo è dirompente, sostenuto da una carica fisica incontenibile, che è la cifra stilistica di Urbani, in questo discepolo di Coltrane non distante da un grandissimo come Pharoah Sanders: Urbani però esercita un controllo sulla forma e sull'esito complessivo molto rigoroso, anche grazie alla calibrata interazione con Luigi Bonafede (al pianoforte, di preparazione classica, ma capace di fare uso di mezzi pesanti eppure ariosi in stile McCoy Tyner, sfiorando quasi la foschia post-moderna di Cecil Taylor), Furio Di Castri (contrabbassista di talento smisurato che ha collaborato con metà dell'universo Jazz, anche americano) e il batterista Paolo Pellegatti (che mi stupisce, da profano, per la schiuma dei patti, quasi violentati).

Brani come "L'Amore" sono dei mezzi miracoli di dinamismo: per due minuti sembra accadere poco nulla, ma in realtà pianoforte e contrabbasso allestiscono un'atmosfera di stampo quasi impressionista, prima che irrompa l'innaturale energia infuocata del contralto, che nel caso adotta una tecnica post-bop chiaramente coltraniana (le note legate su tempi velocissimi, un tema semplice rielaborato all'infinito, la capacità di scovare accordi dentro gli accordi per sviluppare un discorso potenzialmente eterno, l'indagine complessa sull'armonia, quella che fu definita "improvvisazione verticale", e di cui Coltrane era e rimane maestro insuperato; ma anche l'uso sapiente di tutti i mezzi espressivi fonici del sassofono, in termini propio fisici: rumori e grugniti, sovracuti etc..). Quindi ritorna la pace, Urbani diventa più allusivo e morbido, il basso è melodico e quasi gentile, la concezione del quartetto è tendenzialmente democratica; alla fine, Urbani ricorre alle sonorità più basse dello strumento, tanto che risulta difficile distinguere le note e che sembra di ascoltare un brano completamente diverso (il tempo poi cambia e diventa in 3/4): insomma, il pezzo è davvero avvincente e può conquistare con facilità anche chi non è addentro le dinamiche del jazz. "Max's Mood" è una delle composizioni originali di Massimo ed è letteramente incendiaria, qui l'ispirazione all'universo Coltrane diventa ancor più evidente, per l'arrovellarsi di tutti gli strumenti, specie un pianoforte allucinante (sembrano due pianoforti, per la verità), degno dell'accostamento con il grande visionario McCoy Tyner. Il solo della batteria conferma poi che Urbani dava spazio a tutti, e voleva brani di ampio respiro, eclettici, in grado di costruire atmosfere fra loro anche radicalmente contrastanti. Radicale è anche il duetto fra sassofono e contrabbasso di "Scrapple From the Apple", forse il pezzo più parkeriano per logica e costruzione.

Concludo: una rivelazione, non trovo altro modo di definire lo splendido universo di Massimo Urbani. E' doveroso concedergli almeno un ascolto, perché, come diceva lui, l'avanguardia è nei sentimenti: e di sentimento qui ce n'è sin troppo.

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fabfabfab alle 19:55 del 18 dicembre 2014 ha scritto:

Anche io come te. Sempre sentito nominare e mai ascoltato. Una recensione come la tua (probabilmente la migliore del sito in ambito jazz) mi obbliga a rimediare al più presto.

Utente non più registrato alle 17:54 del 26 gennaio 2015 ha scritto:

OoooOoh il miiitico Massimo Urbani...

FrancescoB, autore, alle 11:51 del 31 gennaio 2015 ha scritto:

Felice che ti piaccia VDGG: Massimo è un gigante della musica italiana che non purtroppo la nostra naturale idiosincrasia al jazz "evoluto" ha relegato in secondo piano. Il suo sassofono brucia di un'energia quasi materica indescrivibile, non solo in questo disco (il mio preferito) ma anche negli ottimi Blessing e Easy To Love, altri saggi del suo enorme talento interpretativo. La sua vicenda umana non è meno toccante e intrigante di quella artistica peraltro: si trovano interviste dove racconta degli incontri con i grandi del jazz americano (ad esempio, Freddie Hubbard), e mostra sempre un'umiltà unica. In Blessing suona anche il fratello minore Maurizio, musicista notevole e originale, anche se distante dall'energia mistica e parker/coltraniana di Massimo. Mi riprometto, nei limiti del possibile e delle mie capacità, di recuperare qualche grande nostrano in questo contesto: penso al citato Mario Schiano, padre spirituale della scena alternativa italiana (naturalmente, in ambito jazz), o ad Eugenio Colombo.

Utente non più registrato alle 13:19 del 31 gennaio 2015 ha scritto:

Felice che tu ne abbia scritto…anche se l’album in questione non lo conosco.

Ho sempre fatto fatica a recuperare i lavori di questo nostro grande musicista, ho “solo” Easy to love e Live at JazzBO' 90 in una strepitosa formazione comprendente Enrico Rava, Franco D’Andrea, Giovanni Tommaso, Aldo Romano (già solo questi sarebbero musicisti da prendere in grande considerazione).

Di Mario Schiano invece conosco Partenza di Pulcinella per la luna.

Felice che ti sia “ravveduto” sulla grandezza di musicisti non americani.

FrancescoB, autore, alle 13:45 del 31 gennaio 2015 ha scritto:

Si c'è voluto un po' di tempo, ma oggi non esito a collocare alcuni grandi europei a fianco dei musicisti americani, specie se si parla degli ultimi decenni (la fase "storicizzata" del jazz è quasi tutta made in usa ovviamente): dal norvegese Garbarek al polacco Komeda, passando per quello che forse è il sassofonista più importante dell'era post-Trane (l'inglese Evan Parker), e naturalmente per gli italiani (appunto Urbani, Schiano, Rava, Colombo ma anche Fresu, D'Andrea e diversi altri), c'è roba interessante anche nel vecchio continente

Utente non più registrato alle 15:41 del 31 gennaio 2015 ha scritto:

Assolutamente...molto dipende dal raggio d'azione del tuo interesse.

Musicisti a caso che mi vengono in mente al volo: Gianni Basso, Enrico Pieranunzi, Gianluigi Trovesi, Paolo Damiani, Livio Minafra, Terje Rypdal, Esbjorn Svensson trio, Tomasz Stanko, etc...