V Video

R Recensione

7,5/10

Matthew Bourne

Montauk Variations

Mettetevi nei miei panni, mica è facile recensire un disco di Matthew Bourne, tanto più che riiviste e webzine pullulano di gente molto più ferrata del sottoscritto, ed il rischio figuraccia è veramente dietro l'angolo.

Ma ci provo lo stesso.

Il pianista inglese (ancora giovane: classe 1977) ha una formazione del tutto particolare e crea, anzi vive una musica del tutto particolare, lontana anni luce dai suoni a noi più familiari. Lui stesso fatica catalogarsi: formazione jazz, senza dubbio (tant'è vero che Matthew si guadagna da vivere come side-man di musicisti jazz di vaglia, specie transalpini come John Dehors), ma in pentola bolle anche la passione per l'avanguardia più ermetica ed indecifrabile; e poi ci sono il minimalismo, stravaganze e reminiscenze degne di tale Satie, la collaborazione e lo scambio di idee con John Zorn (un duo di quelle importanti).

"Montauk Variations", metaforicamente ambientato a Mountak, Long Island, è un album talmente cerebrale da risultare inclassificabile, anche se critici di vaglia ci hanno provato.

Il pianoforte (strumento principe di queste variations), è soffuso e finemente ricamato, non disdegna cambi di tono e di accento improvvisi e del tutto imprevedibili (del resto, la sua carriera è un inno all'imprevedibilià, Matthew non sembra capace di rilassarsi e di confrontarsi per più di una volta con un dato stile).

Tutto giusto, ma come definire questa musica, per noi ossessionati dal concetto di "genere"?

Jazz? Ok, le radici sono afro-americane e lo swing fa capolino qua e là, ma nel complesso mi pare molto riduttivo assegnare l'etichetta jazz..cosa c'è di jazz in un pezzo quasi post-rock come "Abrade"?

Avanguardia? Sicuro, ma non solo, e poi il concetto di avanguardia è talmente vasto che significa tutto e quindi nulla (quanta avanguardia c'è – torno ancora lì - nel post-rock?).

Musica classica o colta o come vogliamo chiamarla? Secondo me, anche questa definizione calza fino ad un certo punto, visto l'approccio decisamente personale e anti-virtuoso di Matthew.

"Montauk Variations", in realtà, è un lavoro complesso eppure istintivo e fortemente direzionato in ottica "carpe diem": innamorati dell'attimo, divorarlo e poi esprimilo come meglio ti riesce.

Non è un mistero che Matthew sposi un approccio di tipo polisensoriale, cercando di tradurre in musica sensazione visive e olfattive, o anche solo l'atmosfera di un dato luogo, il suo clima (quindi, il tatto, o il freddo sulla pelle), così come gli spunti che arrivano da mondi lontani da quello della musica (la tv, i giornali etc...).

Non è un mistero che la musica, per lui come per molti fra i più grandi, sia soprattutto sentimento libero da premeditazioni o condizionamenti di sorta.

Ecco: capito questo, forse riesce un attimo più facile addentrarsi nei meandri di questo piccolo gioiello, confrontarsi con i suoi lenti rintocchi, con i suoi silenzi, con gli incisi melodici che concedono pochissimo al pubblico perchè vogliono conquistarlo poco a poco, imbarcandolo sopra un'astronave d'argento che decolla con grazia e che per un bel pezzo non vuole saperne di ritornare (una specie di "Odissea nello spazio" versione pianoforte).

Meditazione allo stato puro, che sporadicamente lascia spazio e barlumi di razionalità e di forza dirompente: se "Air" o "Infinitude" sono Bill Evans che mette in un cassetto un po' della sua malinconia e si imbottisce di sedativi, "Ethude Psychotique" dà una sferzata e si mette a giocare con le dissonanze (la dedica a Zorn è quasi implicita).

"Within", invece, è rumore astratto che sposa una oscura danza del pianoforte, per un esito poco decifrabile e molto affascinante.

Ispirazione, momenti irripetibili ed improvvisazione dicevamo: facile allora intuire che la fine di una storia importante e la scomparsa di un amico fraterno come Philp-Butler Francis si nascondono dietro il pensoso andamento di brani come "Juliet" o "Senectitude" (una fra le composizioni più affascinanti, ove si incrociano a meraviglia piano sonnolento ed un espressivo violoncello – l'altro protagonista del disco).

"Greenkeeper" invece ha qualcosa della musica per areoporti ed a momenti fa scorrere brividi lungo la schiena, ma non quanto "Smile", rilettura mesta eppure vivissima del vecchio e celeberrimo capolavoro di Charlie Chaplin.

Non è facile cimentarsi con un disco del genere, dicevo, e qui ribadisco con forza il concetto: ma vi assicuro che ne vale la pena, certe esperienze meritano di essere vissute a prescindere.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

C'è un commento. Partecipa anche tu alla discussione!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.

fabfabfab alle 12:00 del 19 luglio 2012 ha scritto:

Hai ragione Francesco, ascolto pensoso e difficile. I pezzi che hai postato sopra però, complice il lato "visivo" di sicuro impatto, mi piacciono molto. Non so dove tu l'abbia scovato, ma credo che il disco sia degno di attenzione. Recupero all'istante.