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R Recensione

9,5/10

Miles Davis

Bitches Brew

Di certo l'ignaro ascoltatore di jazz che calava la puntina in quel lontano 1970, all'attacco ritmico di Pharaoh's Dance non aveva il minimo sospetto di quello che avrebbe dovuto subire nei successivi novanta minuti. Altrettanto sicuramente la stessa label, la Columbia, ha promosso il disco per un pubblico fin troppo conservatore: paradossalmente i fanatici del rock di Doors e Pink Floyd in voga all'epoca si sarebbero trovati molto più a proprio agio in quel mantra psichedelico rispetto agli impettiti ascoltatori di hard bop.

Ciononostante, la rivoluzione nel sound di Miles Davis era stata tutto fuorché improvvisa: da tempo il trombettista di East st. Louis era insoddisfatto del pur eccellente lavoro portato avanti dal suo secondo e prolifero quintetto (formato da Wayne Shorter al sassofono, Herbie Hancock al piano, Ron Carter al contrabbasso e Tony Williams alla batteria, oltre che ovviamente da Miles Davis stesso) e stava cercando di far evolvere il proprio sound verso nuove direzioni rispetto all'hard bop, che ormai gli appariva come una trappola.

Di virare verso l'ormai crescente free jazz (o new thing, come piaceva chiamarlo ai suoi sostenitori) non se ne parlava neanche; le ragioni sono varie e frammentarie: c'è chi parla di una sua invidia nei confronti di Ornette Coleman, l'antesignano di questo singolare genere, per cui non ha mai espresso giudizi entusiastici (ben noto è il carattere di primadonna del trombettista); c'è anche la versione “ufficiale” fornita da Davis stesso, che parla di una sorta di “musicicidio”, di una musica tanto libera da perdere di senso, spinta ed elogiata dalla critica bianca perché i neri non raggiungessero più le vette qualitative dei grandi maestri dell'hard bop.

Che sia più plausibile una presa di posizione verso Coleman o la complottista visione dei fatti di Davis a noi non è dato sapere: è sufficiente però appunto comprendere il motivo per cui l'artista non aderì mai alla scena che nella metà degli anni '60 andò per la maggiore e perché appunto iniziò una complessa e personale ricerca di innovazione della musica che l'avrebbe poi portato a pioniere del jazz-rock.

La rivoluzione del sound ha inizio perlopiù nel 1968, all'uscita del bistrattato Miles in the Sky (Columbia, 1968), lavoro in cui Miles iniziava a fare uso più o meno sistematico di strumenti elettrici, più tipici del rock che nel jazz (piano elettrico e basso elettrico per la precisione). Nonostante la strumentazione però, la musica di Miles in the Sky non è ancora jazz-rock: si può più parlare di un post-bop di pregevole fattura leggermente spinto verso il free-form; il successivo Filles de Kilimanjaro (Columbia, 1969) non cambia di molto le cose, anche se il cambiamento pian piano inizia a farsi più netto ed evidente. La svolta era nata dalla passione di Davis per la musica di Jimi Hendrix e di Sly & the Family Stone, da lui considerati “la speranza per la nuova musica nera”; non a caso in quel periodo Davis inizierà ad applicare un effetto wah-wah alla sua tromba per cercare di replicare il sound hendrixiano, di cui era anche buon amico.

È In a Silent Way (Columbia, 1969) a stravolgere una volta e per tutte la storia della musica jazz in una direzione trasversale rispetto a quella del free jazz: elettrificata quasi del tutto la strumentazione (provvidenziale in tal senso sarà la collaborazione col dotato tastierista Joe Zawinul, successivamente famoso nei Weather Report), il disco si snoda in due sole, lunghe composizioni che nascondono un totale di quattro pezzi, proposti tra loro in continuità, in un unico flusso musicale.

Ma un'altra sarà la grandissima peculiarità della composizione di questo capolavoro: con l'ausilio dell'irriducibile e certosino produttore Teo Macero, Davis inizierà ad interpolare i nastri registrati in studio, operando pesanti lavori di editing sulle tracce registrate dai suoi e aggiungendo assoli o tagliando e incollando tra di loro le parti secondo le proprie preferenze. In altre parole la composizione si articolava in due fasi: quella corale, in cui l'ensemble (ormai ben oltre le dimensioni del classico quintetto) improvvisava seguendo le scarnissime indicazioni fornite da Davis e quella di editing dove invece i veri compositori diventavano il trombettista e il severo Macero.

Solo con questo ampio ma necessario preambolo si può comprendere (almeno in parte) il complesso reticolato di fatti sociali e musicali che hanno portato alla genesi di Bitches Brew (Columbia, 1970) un doppio album tanto spontaneo all'apparenza quanto criptico e pesantemente rimaneggiato nella sostanza.

La composizione è delle più strambe e ambigue: il trombettista riunisce in studio un gran numero di musicisti (tra cui possiamo distinguere ad esempio Joe Zawinul all'organo elettrico, Chick Corea al piano elettrico, il funambolico John McLaughlin alla chitarra, il batterista Jack DeJohnette) e intima al produttore Teo Macero di accendere il nastro e di lasciarlo scorrere senza mai interromperlo, qualsiasi cosa facessero.

Sulla base delle minimali direttive impartite dal leader, il gruppo si esibisce in tante piccole take di singoli pezzi e su (generalmente) brevi improvvisazioni su temi, spesso inferiori a tre minuti, per poi essere interrotti e ripartire; insomma, quanto di più distante ci possa essere dalle coerenti (e torrenziali) composizioni presentate nell'LP compiuto. Qui si deve ricercare (a differenza dell'album precedente, dove tali interventi sono molto più ridotti) l'importanza ormai assunta dalla fase post-editing: ben conscio di ciò che vuole, Davis fa incidere al suo numeroso ensemble solo piccoli frammenti, avendo già in mente il modo in cui desidera assemblarli tra loro. Nelle sessioni di registrazione lo si sente poco quanto niente: avrebbe suonato da solo improvvisando direttamente sui lavori compiuti, frutto di un minuzioso lavoro di interpolazione. Il lavoro di rimaneggiamento insomma qui acquisisce un'importanza estrema: sarebbe stata proprio l'influenza di questo periodo di Miles Davis (e, sostengono alcuni nonostante le affermazioni contrarie dello stesso terzetto di Canterbury, di Frank Zappa) che avrebbe portato i Soft Machine a usare la stessa tecnica nel loro capolavoro Third (CBS, 1970).

Si fanno sentire anche le influenze etniche nel suono delle percussioni (“Da quel disco in poi avrei avuto sempre almeno un percussionista in formazione” avrebbe dichiarato lo stesso artista) per una ragione sociale che sarà spiegata a breve.

Occorre ora “tradurre” questo magma sonoro in continua evoluzione: cos'è in fondo questo Bitches Brew? Musicalmente l'album si presenta come un monumentale colosso della durata di poco più di novanta minuti articolati lungo appena sei tracce generalmente di lunga durata (la title track, uno dei capolavori usciti dalla penna del leader, sfiora i 27 minuti di durata) dal sound ormai più psichedelico che strettamente jazzistico: l'angoscia è palpabile minuto per minuto, le rilassate ballad per cui quel Miles Davis era diventato famoso ormai sono solo un lontano ricordo. Sostenuta da una sezione ritmica pulsante e apparentemente destinata a non fermarsi mai, gli strumenti melodici (in particolar modo la chitarra dell'astro nascente John McLaughlin, poi famoso con la Mahavishnu Orchestra) si evolvono in situazioni via via sempre più dissonanti, acide e psichedeliche, sotto una complessa tela atmosferica fornita da piano elettrico e organetto. Non manca un tributo al mai troppo compianto Jimi Hendrix in Miles Runs the Voodoo Down.

Non è d'altronde un caso se la musica di Bitches Brew, più volte riproposta dal vivo, trovò più sostenitori nei fan dei Grateful Dead (con cui la formazione si trovò a suonare alcune volte) che non tra il conservatore pubblico del jazz e della new thing che, come spesso accade, preferì spaccarsi tra chi urlava al capolavoro e chi bocciava in toto l'esperimento in nome di un quanto meno ingiustificato purismo.

Sbaglierebbe però chi pensasse che Bitches Brew contiene musica fine a sé stessa: se formalmente infatti il funambolico leader si è sempre mostrato contrario al free jazz, ne condivide però gli ideali di fondo, ossia un clima di rivolta politica, di celebrare la libertà del popolo afroamericano e di porre fine a tutto il violento razzismo che aveva pervaso gli Stati Uniti negli anni di Martin Luther King e di Malcolm X. Questa tensione di fondo si avverte lungo tutta l'ora e mezza che infatti vede Bitches Brew più come un selvaggio mantra, un rituale dal sapore africano (ecco spiegata la nuova passione per le numerose percussioni di cui si è accennato sopra).

Nel corso dei successivi cinque anni il compositore avrebbe spinto alle estreme conseguenze (specie dal punto di vista dell'abuso della sezione ritmica) questo tipo di sound, distruggendo letteralmente la sua musica (e anche il suo corpo, con le forti dosi di cocaina, acidi e anfetamine che assumeva quotidianamente) con abrasive quanto affascinanti performance, tutte però prive dello straordinario equilibrio e del gusto che ha saputo contraddistinguere l'opera in questione. Bitches Brew vuole farsi, con un sound fresco e innovativo, un vero e proprio manifesto degli afroamericani e della loro emancipazione dalla tanto odiata (a volte anche esageratamente e a torto, occorre dire) establishment bianca. Un lavoro tanto figlio del suo tempo eppure al contempo tanto immortale, volto a ricercare i veri valori dell'Africa in una musica che non aveva mai sentito tanto ritmo pulsare dentro di sé.  

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Voto degli utenti: 9,4/10 in media su 18 voti.
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B-B-B 9,5/10
Cas 9,5/10
Lelling 9,5/10
GiuliaG 10/10
theRaven 10/10

C Commenti

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FrancescoB (ha votato 8,5 questo disco) alle 10:27 del primo ottobre 2014 ha scritto:

Recensione riuscitissima e doverosa per un disco epocale. Io forse preferisco la leggerezza più "composta" di "In a Silent Way", ma anche qui bisogna solo inchinarsi. Certo che uno sguardo d'insieme sulla discografia di Miles lascia veramente senza parole. Bravissimo Alessandro!

Utente non più registrato alle 14:26 del primo ottobre 2014 ha scritto:

Intanto il voto, poi magari ripasso per la lettura della recensione ed un eventuale commento.

Comunque era una grave lacuna la mancanza di questo disco (e non solo...) su un sito che ha scelto quel titolo...

Utente non più registrat (ha votato 9 questo disco) alle 22:07 del 5 ottobre 2020 ha scritto:

Monumentale, appetibile, unico... caspita, solo quest'album poteva far sembrare lo splendido "In a Silent Way" un disco di transizione. Certo qualche prolissità c'è, ma è la prolissità dei capolavori epocali e non quella degli album mediocri e spenti... Bitches Brew ribolle di vita! E di sesso... altro che fare l'amore con Dark Side of the Moon in sottofondo: è Bitches Brew il futuro delle coppiette appartate!

Utente non più registrat (ha votato 9 questo disco) alle 22:11 del 5 ottobre 2020 ha scritto:

Battute a parte, devo ammettere che qui Shorter fa la figura di un autentico dio del jazz... intelligentissimo, misurato, quando occorre quasi discreto, ha proprio le caratteristiche proprie di un Artista con la a maiuscola. Che sia il caso per me di rivalutarlo?

FrancescoB (ha votato 8,5 questo disco) alle 8:11 del 6 ottobre 2020 ha scritto:

Ottimo Gennà,se vuoi un consiglio spassionato devi rivalutare sia Wayne Shorter che Archie Shepp perché si tratta di due tra le cose più grandi che puoi incontrare nell'arco di tutta la tua vita

theRaven (ha votato 10 questo disco) alle 13:22 del 6 ottobre 2020 ha scritto:

Vista la soddisfazione provata, se dovessi tornare indietro nel tempo, rifarei la stessa cosa. Dedicherei tentativi di ascolto, peraltro fallimentari, a Shepp e simili, ma mi concentrerei sulla discografia di ogni singolo elemento della formazione che ha suonato in questo monumento sonoro.

Vorrei sottolineare che Davis ha messo il suo sigillo di bellezza e creatività su quasi tutto quello che ha suonato, ma considerarlo il padre del jazz-rock, come ha fatto e fa certa critica, non è corretto.

Ma non mi dilungo.

A proposito invece di transizione (In a silent way non lo è, semmai un primo approdo) e/o completezza, per comprendere al meglio quello che Davis stava cercando di fare in quel periodo, bisognerebbe procurarsi la sessione completa di Bitches Brew, o Big Fun con gli inediti e Circle in the round (che copre vari periodi). Si ascolterebbe così il "salotto indiano" ad esempio.

Utente non più registrat (ha votato 9 questo disco) alle 13:53 del 6 ottobre 2020 ha scritto:

Che Davis abbia di punto in bianco inventato il jazz-rock è molto discutibile, come giustamente osservi. Uno degli antecedenti più evidenti è ad esempio l'Hancock di "Cantaloupe Island", o ancora meglio con Hubbard l'inizio di "The Egg" (sono le uniche cose che su due piedi mi vengono in mente, scusate l'ignoranza). Solo che Davis e squadra hanno fatto "Silent Way" e "Bitches Brew", gli altri "quelli prima di lui" non mi risulta avessero prodotto album di caratura così elevata. Cioè, altro esempio, i Seeds in Pictures and Design già esprimono brillantemente una certa fusione stilistica; però "The Doors" e "Strange Days" non li hanno mica fatti i Seeds, ma i... capisci cosa intendo dire?

FrancescoB (ha votato 8,5 questo disco) alle 16:30 del 6 ottobre 2020 ha scritto:

Io credo di sì e condivido. La cosa incredibile del Davis elettrico, inizialmente inviso alla critica jazz più in odore di snob, è che portò a compimento un modo originale di concepire il jazz elettrico tentando di avvicinarsi al mainstream pop. Era già una star ma voleva vendere di più, in sintesi, e questo lo portò a dare vita a questa musica proteiforme e pantagruelica, che ancora oggi mi colma di soggezione come poche altre produzioni del '900, forse giusto AACM e avanguardia europea sono andati oltre. In ogni caso, un bell'esempio di quella che si definisce eterogenesi dei fini

theRaven (ha votato 10 questo disco) alle 16:35 del 6 ottobre 2020 ha scritto:

Intendo, certo che intendo, ma la tua osservazione non dovresti farla a me, non so se mi spiego

Vediamo se riesco, seppur il più brevemente possibile, a farmi capire.

Davis in quel periodo, anche per motivi "razziali", non prendeva in considerazione il rock, musica bianca (anche se scaltramente non disdegnava di attorniarsi di musicisti bianchi), ma le sue influenze erano il soul jazz, Sly & tFS, Hendrix (peccato non si sia mai concretizzato il progetto di suonare insieme, chissà cosa ne sarebbe venuto fuori), Lateef (anche Coltrane lo conosceva e apprezzava, ma quanti lo ricordano?), Lloyd; da qui provengono anche i musicisti abilmente sottratti.

In effetti, se si guarda la formazione, tutti avevano una certa provenienza musicale.

Nello specifico Tony Williams (naturalmente non su BB) e John McLaughlin avevano già prodotto sia insieme con i stupefacenti Lifetime, sia separatamente (McLaughlin solista) del jazz-rock, questo si.

L'importanza che ha avuto Zawinul, anche dal punto di vista compositivo, è enorme.

C'è anche da dire che, quello che poi sarebbe stato effettivamente il jazz-rock, ha seguito più la strada tracciata dai Lifetime e dalla Mahavishnu Orchestra di McLaughlin, che quella tracciata da Davis, che forse si è avvicinato più con il meraviglioso Tribute to Jack Johnson.

Ma quello è un altro disco e un'altra storia, in cui comunque c'è ancora McLaughlin, ma c'è anche Billy Cobham, anch'egli autore con Spectrum di un altro superlativo esempio in questo genere.

Altri esempi prima di Davis, potrebbero essere la White Elephant Orchestra di Mike Mainieri, gli esperimenti di Don Ellis e, perché no, il progressive.