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R Recensione

10/10

Naked City

Grand Guignol

Lo stereotipo che da sempre caratterizza il jazz, universalmente inteso come uno fra i più longevi generi musicali, è quello di musicisti seriosi, possibilmente dalla pelle scura, impeccabilmente vestiti con il più classico degli smoking neri, in abbinamento alle scarpe lucide, anch’esse nere, e al papillon bianco: non si fa troppa fatica ad immaginarli, la testa reclinata, la tromba, o il sassofono, incollati alla bocca, le dita che si muovono veloci per riuscire a produrre una difficile nota, in una sala fumosa, kitsch e vagamente retrò, dove tanti borghesi assistono allo spettacolo, seduti a dei tavolini barocchi, chiaramente affascinati da quel turbinio fluente di rumori e sensazioni.

Se è dunque lecito pensare al jazz come ad un genere altolocato, almeno in prima battuta, è anche vero che, da qui a catalogare interamente la vastità incommensurabile di questo genere con l’etichetta stereotipata sopra descritta, ne passa di acqua sotto i ponti. Affermare di essere amanti del jazz, ammettendo poi, nella più totale sincerità, di ignorare categoricamente cosa ci sia al di là dei tre mostri sacri citati appena sopra, significa non essere amanti del jazz. Allo stesso tempo, affermare di amare il suono inconfondibile del sax, per poi smarrirsi quando viene citato il nome di John Zorn, significa non amare il jazz. Perché, se nomi come Armstrong e Fitzgerald rappresentano la faccia del jazz che tutti, chi più chi meno, conosciamo, al contrario Zorn è il portabandiera del “dark side”: quello con cui nessuno vuole venire a contatto, perché malato, bizzarro, deviante. Insomma, se vogliamo dirla tutta, John Zorn rappresenta il lato “terroristico” del jazz.

Cinquant’anni suonati, sui palchi di mezzo mondo sin dal 1972, una valanga di album incisi, fra la carriera solista (spesso incompresa, mai del tutto affermatasi come avrebbe meritato) e i migliaia di progetti paralleli, portati avanti con dedizione, coraggio e un pizzico di ordinaria follia: questo è lo straordinario palmares di Zorn. La sua creatura più conosciuta (o, se non altro, quella con cui ha avuto il maggior successo) è quella dei Naked City, un supergruppo formatosi verso la fine degli anni ’80, nel quale, oltre al già citato Zorn (alto sax), erano presenti alcuni fra i migliori musicisti dell’epoca: Fred Frith al basso, Bill Frisell alla chitarra elettrica, Joey Baron alla batteria e, occasionalmente (in veste di urlatore), Yamatsuka Eye alla voce. Sin dalle loro primissime apparizioni, grazie al carisma del loro leader e all’affiatamento presente fra i membri del gruppo, i Naked City si sono imposti con forza sui palchi di tutto il mondo. Per anni, i critici musicali hanno discusso accanitamente in che genere inquadrarli, salvo poi soccombere miseramente. Non c’è, infatti, una concezione spazio/tempo ben precisa, in cui gli americani possano essere inseriti con esattezza: la conoscenza tecnico/musicale dei cinque è eccezionalmente erudita, ed il loro stile, di conseguenza, è talmente vario da mescolare al suo interno il free jazz con lo swing, o addirittura il country con il grindcore più seminale e violento. Ad un certo momento si è resa necessaria, perciò, la coniazione di un termine ben preciso (noto come “jazzcore”) per indicare le immense influenze che confluiscono in ogni loro brano.

Dopo l’omonimo esordio del 1989, nel 1991 il gruppo fece uscire, in tiratura limitata, il nuovo lavoro, dal titolo “Grand Guignol”. Un titolo che calza a pennello con quello che è l’artwork: il nome dell’antico teatro di Parigi, per decenni palco di moltissime rappresentazioni sadiche e macabre (prima della sua chiusura forzata) e simbolo di terrore universale, è un pretesto per giustificare la testa, in parte scoperchiata, di un uomo su un vassoio d’argento, nonché il mucchio di arti mutilati e raggruppati presenti sul retro. E questa è, in fondo, una metafora, atta a descrivere la vera arte dei Naked City: la forma-canzone, simbolicamente indicata con un braccio, viene sconvolta, sventrata, distrutta, trasformata oltre ogni dire, resa irriconoscibile da ogni possibile ed immaginabile turbamento sonoro, marchiata indelebilmente con il fuoco della pazzia.

Eppure, nonostante tutto, l’incipit è degno di un normalissimo disco jazz, con i suoi tocchi di classe e le sue impennate stilistiche: quasi a parafrasare lo strato di perbenismo presente, per anni ed anni, sulla superficie del Grand Guignol parigino, l’opera si apre maestosamente con una lunghissima suite (quasi venti minuti), rigida ed impeccabile nella sua aulica perfezione, senza sbavature ed imprecisioni, quasi estatica ed onirica nella sua totalità. E i brani seguenti non sono da meno: dopo la martellante “Blood Is Thin”, il gruppo sceglie addirittura di arrangiare in chiave jazz-swing, con gusto eccellente ed attenzione ai dettagli, alcune sonate di grandi compositori novecenteschi (si ricordano i fenomenali “Three Preludes, op 74”, creature del russo Aleksandr Skrjabin, divisi in “Douloureus, Dechirant!”, “Tres Lent, Contemplatif” ed “Allegro Drammatico”).

Dopodiché…

Si abbatte il cataclisma. Dalla traccia nove, sino all’ultima (la quarantuno), è un continuo mitragliamento di piccole schegge impazzite, comprese fra i trenta secondi e il minuto scarso, dove il sax di Zorn raggiunge toni altissimi (si veda l’apertura di “Jazz Snob Eat Shit”, una delle più belle dell’intero lavoro), la chitarra viene lanciata in assoli tanto crudi quanto veloci, la batteria macina tempi astrusi. E compare Yamatsuka Eye: le sue urla schizofreniche imprimono una maggiore forza a segmenti come “Piledriver” (aperta da un bellissimo drumming) e “Perfume Of A Critic’s Burning Flesh” (da applausi il lavoro frenetico di Zorn). Senza dimenticare i solchi più profondi: “Thrash Jazz Assassin”, un pezzo dall’alto tasso grindcore che si scontra con l’imponente basso di Frith, sotto un tappeto di soffuse tastiere; “Sack Of Shit”, trenta secondi di violenza allo stato puro, in cui Yamatsuka Eye sembra dare di matto sotto la gragnuola di accordi creati dalla chitarra di Frisell; o ancora, l’ambigua “The Cage (Ives)”, una cantilena perversamente infantileggiante, in bilico fra attacchi progressive ed atmosfere ambient.

Ogni cosa è dunque compiuta. L’ultimo sax viene posto a tacere, Eye prende un antinfiammatorio, gli altri membri si riposano, il ghigno sulle labbra, ben consci che l’arte, come la conosciamo noi, da oggi non sarà più la stessa. Perché ci hanno pensato loro, i Naked City, a stravolgerla, sotto il segno della follia creativa e della fiamma dell’inventiva. Sebbene pochi capiscano quanto importante sia stata un’opera del genere. Ma i pochi che ne hanno colto l’essenza, hanno gioito, gioiscono e gioiranno.

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Voto degli utenti: 8,4/10 in media su 6 voti.
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fillo 9/10
Lelling 8,5/10

C Commenti

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fillo (ha votato 9 questo disco) alle 10:02 del 30 maggio 2007 ha scritto:

mi sembra un pò azzardato accostare Ornette Coleman allo "stereotipo che da sempre caratterizza il jazz.." o ai nomi di armstrong ed la Fitzgerald, personalmente credo che Coleman con la sua musica abbia sempre voluto staccarsi da tutti i clichè di cui parli che vedevano neri benvestiti che suonavano musica per fare divertire i bianchi, Coleman come Miles Davis volle dare dignità al jazz, nel 1960 con l'album "free-jazz" incide un disco jazz assolutamente fuori dagli schemi facendo suonare assieme due quartetti distinti che cercano di improvvisare il più possibile...quella era sicuramente avanguardia, john zorn è avanguardia e secondo me tra coleman e zorn non c'è uno stacco ma una continuità, non a caso nel secondo (mi pare) album dei naked city è presente una cover di Coleman.

Marco_Biasio, autore, alle 20:55 del 2 agosto 2007 ha scritto:

Naked City

Fillo, hai perfettamente ragione. Mi sono accorto dell'errore poco dopo averla pubblicata. Grazie in ogni modo della laettura e dell'attenzione Altri piccoli errori nella mia recensione: Zorn non ha inciso "una cinquantina di dischi" come pensavo, una stima azzardata sfora il tetto dei duecento (!!!!). Inoltre, mi sono dimenticato di citare la bellissima suite iniziale omonima, di diciotto minuti, che è davvero schizoide e multiforme.

fillo (ha votato 9 questo disco) alle 10:51 del 3 agosto 2007 ha scritto:

...bene, ti ringrazio della risposta, e comunque non c'era nessun intento polemico nella mia critica, anzi ho trovato la tua recensione molto ben scritta e poi credo che per una persona che scelga di recensire quel disco sia da premiare anche l'intenzione.

Anche secondo me zorn è stato molto più sperimentale degli altri, e soprattutto continua ad esserlo!

filippo

Marco_Biasio, autore, alle 15:09 del 4 agosto 2007 ha scritto:

Non preoccuparti, è bene ricevere anche delle critiche, aiuta a migliorarsi giorno dopo giorno. E sono contento che me l'hai fatto notare, questo mi gratifica perchè so che qualcuno mi legge con attenzione. E grazie anche delle belle parole )) A proposito di Zorn, hai sentito il nuovo Six Litanies For Heliogabalus? A me pare davvero un discone, ai pari di Masada, l'ultimo Filmworks e Kristallnacht. Se l'hai ascoltato, per te?

Mirko Diamanti (ha votato 8 questo disco) alle 16:06 del 20 dicembre 2011 ha scritto:

Ri-esumazione

Six litanies è davvero un discone vario ed intrigante, per me tra le vette di Zorn: il coro femminile mi fa impazzire.

P.s.: questo disco e questa recensione meritano una riesumazione.

Marco_Biasio, autore, alle 16:39 del 20 dicembre 2011 ha scritto:

RE: Ri-esumazione

Il disco sicuramente, la recensione no... c'è qualche errore di troppo

Mirko Diamanti (ha votato 8 questo disco) alle 16:47 del 20 dicembre 2011 ha scritto:

In ogni caso, vogliamo più commenti per un capolavoro siffatto!