Naked City
Grand Guignol
Lo stereotipo che da sempre caratterizza il jazz, universalmente inteso come uno fra i più longevi generi musicali, è quello di musicisti seriosi, possibilmente dalla pelle scura, impeccabilmente vestiti con il più classico degli smoking neri, in abbinamento alle scarpe lucide, anchesse nere, e al papillon bianco: non si fa troppa fatica ad immaginarli, la testa reclinata, la tromba, o il sassofono, incollati alla bocca, le dita che si muovono veloci per riuscire a produrre una difficile nota, in una sala fumosa, kitsch e vagamente retrò, dove tanti borghesi assistono allo spettacolo, seduti a dei tavolini barocchi, chiaramente affascinati da quel turbinio fluente di rumori e sensazioni.
Se è dunque lecito pensare al jazz come ad un genere altolocato, almeno in prima battuta, è anche vero che, da qui a catalogare interamente la vastità incommensurabile di questo genere con letichetta stereotipata sopra descritta, ne passa di acqua sotto i ponti. Affermare di essere amanti del jazz, ammettendo poi, nella più totale sincerità, di ignorare categoricamente cosa ci sia al di là dei tre mostri sacri citati appena sopra, significa non essere amanti del jazz. Allo stesso tempo, affermare di amare il suono inconfondibile del sax, per poi smarrirsi quando viene citato il nome di John Zorn, significa non amare il jazz. Perché, se nomi come Armstrong e Fitzgerald rappresentano la faccia del jazz che tutti, chi più chi meno, conosciamo, al contrario Zorn è il portabandiera del dark side: quello con cui nessuno vuole venire a contatto, perché malato, bizzarro, deviante. Insomma, se vogliamo dirla tutta, John Zorn rappresenta il lato terroristico del jazz.
Cinquantanni suonati, sui palchi di mezzo mondo sin dal 1972, una valanga di album incisi, fra la carriera solista (spesso incompresa, mai del tutto affermatasi come avrebbe meritato) e i migliaia di progetti paralleli, portati avanti con dedizione, coraggio e un pizzico di ordinaria follia: questo è lo straordinario palmares di Zorn. La sua creatura più conosciuta (o, se non altro, quella con cui ha avuto il maggior successo) è quella dei Naked City, un supergruppo formatosi verso la fine degli anni 80, nel quale, oltre al già citato Zorn (alto sax), erano presenti alcuni fra i migliori musicisti dellepoca: Fred Frith al basso, Bill Frisell alla chitarra elettrica, Joey Baron alla batteria e, occasionalmente (in veste di urlatore), Yamatsuka Eye alla voce. Sin dalle loro primissime apparizioni, grazie al carisma del loro leader e allaffiatamento presente fra i membri del gruppo, i Naked City si sono imposti con forza sui palchi di tutto il mondo. Per anni, i critici musicali hanno discusso accanitamente in che genere inquadrarli, salvo poi soccombere miseramente. Non cè, infatti, una concezione spazio/tempo ben precisa, in cui gli americani possano essere inseriti con esattezza: la conoscenza tecnico/musicale dei cinque è eccezionalmente erudita, ed il loro stile, di conseguenza, è talmente vario da mescolare al suo interno il free jazz con lo swing, o addirittura il country con il grindcore più seminale e violento. Ad un certo momento si è resa necessaria, perciò, la coniazione di un termine ben preciso (noto come jazzcore) per indicare le immense influenze che confluiscono in ogni loro brano.
Dopo lomonimo esordio del 1989, nel 1991 il gruppo fece uscire, in tiratura limitata, il nuovo lavoro, dal titolo Grand Guignol. Un titolo che calza a pennello con quello che è lartwork: il nome dellantico teatro di Parigi, per decenni palco di moltissime rappresentazioni sadiche e macabre (prima della sua chiusura forzata) e simbolo di terrore universale, è un pretesto per giustificare la testa, in parte scoperchiata, di un uomo su un vassoio dargento, nonché il mucchio di arti mutilati e raggruppati presenti sul retro. E questa è, in fondo, una metafora, atta a descrivere la vera arte dei Naked City: la forma-canzone, simbolicamente indicata con un braccio, viene sconvolta, sventrata, distrutta, trasformata oltre ogni dire, resa irriconoscibile da ogni possibile ed immaginabile turbamento sonoro, marchiata indelebilmente con il fuoco della pazzia.
Eppure, nonostante tutto, lincipit è degno di un normalissimo disco jazz, con i suoi tocchi di classe e le sue impennate stilistiche: quasi a parafrasare lo strato di perbenismo presente, per anni ed anni, sulla superficie del Grand Guignol parigino, lopera si apre maestosamente con una lunghissima suite (quasi venti minuti), rigida ed impeccabile nella sua aulica perfezione, senza sbavature ed imprecisioni, quasi estatica ed onirica nella sua totalità. E i brani seguenti non sono da meno: dopo la martellante Blood Is Thin, il gruppo sceglie addirittura di arrangiare in chiave jazz-swing, con gusto eccellente ed attenzione ai dettagli, alcune sonate di grandi compositori novecenteschi (si ricordano i fenomenali Three Preludes, op 74, creature del russo Aleksandr Skrjabin, divisi in Douloureus, Dechirant!, Tres Lent, Contemplatif ed Allegro Drammatico).
Dopodiché
Si abbatte il cataclisma. Dalla traccia nove, sino allultima (la quarantuno), è un continuo mitragliamento di piccole schegge impazzite, comprese fra i trenta secondi e il minuto scarso, dove il sax di Zorn raggiunge toni altissimi (si veda lapertura di Jazz Snob Eat Shit, una delle più belle dellintero lavoro), la chitarra viene lanciata in assoli tanto crudi quanto veloci, la batteria macina tempi astrusi. E compare Yamatsuka Eye: le sue urla schizofreniche imprimono una maggiore forza a segmenti come Piledriver (aperta da un bellissimo drumming) e Perfume Of A Critics Burning Flesh (da applausi il lavoro frenetico di Zorn). Senza dimenticare i solchi più profondi: Thrash Jazz Assassin, un pezzo dallalto tasso grindcore che si scontra con limponente basso di Frith, sotto un tappeto di soffuse tastiere; Sack Of Shit, trenta secondi di violenza allo stato puro, in cui Yamatsuka Eye sembra dare di matto sotto la gragnuola di accordi creati dalla chitarra di Frisell; o ancora, lambigua The Cage (Ives), una cantilena perversamente infantileggiante, in bilico fra attacchi progressive ed atmosfere ambient.
Ogni cosa è dunque compiuta. Lultimo sax viene posto a tacere, Eye prende un antinfiammatorio, gli altri membri si riposano, il ghigno sulle labbra, ben consci che larte, come la conosciamo noi, da oggi non sarà più la stessa. Perché ci hanno pensato loro, i Naked City, a stravolgerla, sotto il segno della follia creativa e della fiamma dellinventiva. Sebbene pochi capiscano quanto importante sia stata unopera del genere. Ma i pochi che ne hanno colto lessenza, hanno gioito, gioiscono e gioiranno.
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