R Recensione

7/10

Nicola Lancerotti Quartet

Skin

Nel bianco, somma delle addizioni cromatiche per eccellenza, ognuno scelga di vedere ciò che vuole. Comunque vada, la risposta sarà sempre giusta. È un dissimulato desiderio di anonima semplicità l’atto fondativo di “Skin”, esordio del quartetto condotto dal contrabbasso di Nicola Lancerotti, passaporto italiano e residenza – stabile – belga: “skin”, come la neutra epidermide che, lacerata, rivela un mondo dove scorrono tinte e si palesano contrasti, pulsano gli organi e guizza la vita. Proprio così. Nessun nome, se non a margine, quasi in disparte: nessun segno distintivo; nessuna pompa. Dacché l’estetica, si sa, ha il suo peso: l’abito non farà il monaco, ma permetterà di distinguere la verginella dal peccatore incallito – almeno si spera. Lancerotti, Daniele Martini (sax soprano e tenore), Jordi Grognard (sax tenore, flauto, clarinetto) e Nelide Bandello (batteria) ci sperano ed agiscono di conseguenza.

Ogni pezzo è un microevento sospeso lievemente tra composizione ed improvvisazione: si intuisce, mai con incrollabile certezza, dove finisca l’una ed inizi l’altra. La prima session è posta in apertura di disco e vede fronteggiarsi la formazione al completo, in uno stridere colemaniano di fiati che si dissolve in impetuose linee di basso. A metà scaletta (“Quartet III”: dov’è finito il II?) Lancerotti e Bandello sembrano i soli impegnati in un felpato testa a testa cromatico, quando invece la presenza di Grognard e Martini, inquietante, si staglia su di un sottofondo finto-plunderfonico, braxtoniano, dove gli ottoni sono stilizzati in semplici veicoli respiratori. Riverberi di un tardo, misterico Sonny Rollins echeggiano nell’ultima registrazione a quattro, in coda alla tracklist. La faccenda si assottiglia dunque a tre, in un breve inciso fiatistico di grande espressività e, infine, a due: quest’ultimo scampolo, destrutturato in termini minimalistici, agisce parallelamente su due traccianti, quello melodico e quello ritmico, con Bandello in assolo perenne (nemmeno fosse Ches Smith) e Martini a fraseggiare nervosamente bebop.

Poi, i brani veri e propri, che della composizione mostrano comunque il lato più libero ed espressivo. La head di “Formiche Notturne” è costruita su un gradevole saliscendi tonale segmentato dai creativi vuoti percussionistici (c’è un che di Joe Morello, questa volta). “Faking East” accalappia le potenzialità corali dei due sassofoni, senza mai strabordare: stringhe cool lasciano intravedere, all’orizzonte, praterie di scorribande modali, con un Lancerotti in grande spolvero. Proprio al leader del quartetto è demandato l’elaborato commento introduttivo di “T.T.F.K.A.C.”, dove la caligine palermitana di Luca Lo Bianco sposa la soffusione di grigi della New York di metà secolo. L’idea si sviluppa e diventa qualcosa di ben più concreto nel componimento chiave del disco, “Why?” che, aldilà di una certa prolissità nello svolgimento degli incisi strumentali (difetto, questo, che speriamo si limi col tempo e con l’esperienza: Lancerotti nasce infatti come ingegnere, non come musicista professionista), esibisce ottime doti di incisività melodica: Grognard scolpisce nel mezzo una pregevole progressione di flauto.

Segnalato con colpevole ritardo (è uscito sotto dENRECORDS oltre un anno fa, nel gennaio 2013), “Skin” – per quanto acerbo e perfettibile – possiede tutte le carte in regola per attirare appassionati o meno di una cerchia elitaria, quella del jazz italiano, in continua crescita e costante apertura verso l’esterno.

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