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R Recensione

7,5/10

Ravi Coltrane

Spirit Fiction

Negli anni '90 il Camp Nou ha "ammirato" le gesta di Jordi Cruijff. Per la verità, bastò vederlo un paio di volte sgambettare per il campo per capire che non era cosa. Nessuno azzardò mai paragoni con il leggendario Profeta del Gol, e tutto sommato fu un bene.

Immedesimarsi in Jordi può aiutarci a compredere le sensazioni aggrovigliatesi nella testa di Ravi.

Forse. Perché la sua situazione è anche più grave, il peso del paragone – per lui - è ancora meno sostenibile: se la metà dei geni proviene da John Coltrane, l'altra metà è legata a un altro gigante della musica, la moglie Alice Coltrane.

Per sua fortuna, Ravi ha un bel carattere: si presenta come un ragazzo tranquillo, un docile appassionato di musica che, scrollando le spalle, imbocca il sassofono tenore (chi altro avrebbe avuto il pelo?) e, senza farsi schiacciare dal peso di nomi tanto ingombranti, elabora e quindi mette su disco la propria arte.

Mio padre ha estratto dallo strumento i suoni più urgenti e siderali che si ricordi? Il suo sassofono ha riscritto le regole grammaticali della musica jazz, ha ispirato generazioni intere di musicisti?

Poco male, io faccio il mio, e lo faccio decisamente bene.

Dopo sei lavori di studio, il primo pubblicato in età relativamente avanzata (a 33 anni, dopo decenni spesi a farsi le ossa sui banchi di scuola, quindi nelle vesti di side-man di nomi prestigiosi come Steve Coleman), l'ultimo nel 2012 (per la severa Blue Note), possiamo dire che Ravi è molto meglio di Jordi.

Perché sostanzialmente se ne frega, non cerca di travestirsi da genio, e appare per quello che è: un sincero, ammirevole, talentuoso musicista jazz.

"Spirit Fiction" è un lavoro accattivante, dove il sassofonista alterna due line-up diverse: il suo quartetto storico (Drew Gress al basso, Perdomo al piano, Strickland alla batteria), e un quintetto originale, in cui brilla il discorso conciso e scattante di Ralph Alessi alla tromba. Le band hanno approcci piuttosto diversi, il quartetto è più notturno e soulful, il quintetto costruisce contrappunti più intricati e post-bop.

Il linguaggio estroverso e virulento del padre, che grugniva, che aggrediva l'ascoltatore trascinandolo in un mantra eterno, è un'influenza ineludibile. Ma non marcata. Ravi è decisamente più riflessivo, sembra più affine a tempi meno convulsi (anche se non mancano le celeberrime sheets, marchio di fabbrica di John), rispetta le regole con maggiore devozione.

Ravi è un John bidimensionale, o miniaturizzato: non ti sbatte con furia contro le pareti, ma ti mette a tuo agio.

Non si può parlare propriamente di cool jazz, perché le strutture sono di stampo boppistico e genericamente post-boppistico (tempi complessi, dinamismo di gruppo notevole, intrecci articolati), ma la naturalezza che pervade la performance, romantica e rilassata, mostra qualche affinità con i musicisti freddi.

L'impianto è sostanzialmente simil-cameristico, il suono è levigato, le trame sonore sono sofisticate ma quasi cantabili. Evolute e ricercate sul piano armonico, ma tutto sommato accessibili.

Sei composizioni (su undici) portano la firma di Ravi. Tre sono invece timbrate da Ralph Alessi, e suonano leggermente più aggressive e compatte, meno eteree, improntate a un bandismo più tradizionale. In ogni caso, il lavoro si lascia ammirare.

"Yellow Cat", per dire, si snoda giocosa e aromatica, sassofono e tromba si scambiano un saluto cortese e poi si rincorrono, il pianoforte è pensoso e più introverso, ma non sposta di troppo il mood del brano, che nel finale rimescola tutte le voci in un piccolo tripudio. La colemaniana "Chek out Time" è restituita in tutto il suo para-bandismo geometrico e lievemente dissonante (merito anche del sax di Joe Lovano, coproduttore del disco), ed è l'unica riproposizione di brani altrui accanto a "Fantasm" (che porta la firma del batterista Paul Motian). Quest'ultima è più rarefatta e suadente, con l'introduzione dei fiati all'unisono e quindi il pianoforte che si prende - a tratti - la scena, grazie al tocco pulito e lento di un Perdomo virato Evans (esagero, ma ci siamo capiti: è il mood a suonare evansiano). La conclusiva "Marylin & Tammy" mi colpisce per la freschezza del discorso imbastito da Ravi, dedito a interpretare note acute e scale dal sapore blues; il tutto, arricchito con un'altra performance notevole del pianista, più movimentato del solito, decisamente ispirato nel raccogliere grappoli di note.

Anche la meditazione compatta di "Road Cross" è notevole, con il fitto dialogo fra tenore e pianoforte, ora più equilibrato, ora leggermente più vicino ad una concezione libera e totalmente improvvisata, che deve certamente qualcosa al linguaggio coltraniano.

Come concludere?

Direi che, in definitiva, la proporzione

Johan: Jordi =John: Ravi

non torna proprio.

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