Reijseger Fraanje Sylla
Count Till Zen
Pensando alle derive "estremistiche" che stanno trovando ampia diffusione nella società occidentale recente, diventa obbligatoria una riflessione. Siamo noi che ci facciamo influenzare dai messaggi deliranti di certi personaggi (politici e non solo) o sono loro che interpretano i nostri desideri inconfessabili e se ne appropriano per ottenere consensi? La possibilità pressoché universale di esprimere le opinioni attraverso internet e i social network sta mostrando uno scenario sociale e culturale spaventoso permeato di razzismo (ormai ampiamente sdoganato e pubblicamente "accettato"), revisionismo e nostalgia nazifascista. Protetti dal monitor del computer, abbiamo ritrovato la forza di esprimere le vecchie paure nei confronti del diverso, la volontà consolatoria di identificare un nemico a cui attribuire la colpa dei nostri fallimenti e di sperare in un futuro migliore che guardi al passato e alle sue chiusure geografiche, culturali e mentali. Recentemente, in calce alla solita esternazione razzista di un noto politico, ho letto questo commento, bellissimo: "E' tanto difficile - maledetti bastardi - comprendere il concetto di uomo?". Per quanto possa sembrare retorica, è un affermazione interessante, perchè sfrutta lo stesso linguaggio violento introducendo una domanda che profuma di pace e di futuro. Un futuro migliore, creato dall'uomo nel rispetto dell'uomo. Un concetto tanto semplice da risultare idealistico.
Harmen Fraanje è un pianista jazz olandese che ha suonato in mezzo mondo accanto a musicisti americani, canadesi (Kenny Wheeler) ed europei. Ernst Reijseger è un violoncellista altrettanto giramondo, attivo nel jazz come nella world music insieme a musicisti provenienti da tutto il mondo (l'indiano Trilok Gurtu, il cinese Yo-Yo Ma, l'italiano Franco D'Andrea). Mola Sylla è un cantante e percussionista senegalese ma residente ad Amsterdam da tent'anni (quindi è un "cantante e percussionista olandese"). Da tre personaggi così non poteva che nascere un disco apolide, anarchico, libero da schemi temporali e geografici, che fonde l'accademia e le improvvisazioni del jazz europeo con le radici della musica africana, dando così allo spartito un afflato meditativo e "cameristico" intimo e contemporaneamente aperto, libero e condiviso.
E forse non è un caso che un simile esperimento di musica autenticamente "mondiale", libera da ogni ambizione "colonialista" (anche solo subliminale), arrivi dall'Olanda. Negli anni '60 gli olandesi furono i primi a intravedere l'orizzonte del maggio francese (il loro "maggio" è arrivato almeno tre anni prima, e ha ottenuto immediatamente risultati pesanti, di fatto, scansando ogni forma di violenza). Alla fine dello stesso decennio, gli orange (autoproclamatisi "brilliant orange") hanno messo sul rettangolo di gioco dello sport più popolare del mondo qualcosa che nessuno prima era mai riuscito anche solo a immaginare. Senza voler beatificare nessuno, possiamo dire che gli olandesi, da certi punti di vista, sono semplicemente un passo avanti. Anche quando si tratta di integrazione, musicale e non, per tornare allo spunto introduttivo.
"Count Till Zen" pone davanti diversi problemi, e gli scriventi la cosa è sempre positiva: se non si riesce a classificare un genere, di solito si alza le antenne, e si è costretti a spremere le meningi, perché facilmente ci si è imbattuti in qualcosa di interessante, se non di nuovo. Reijseger e Fraanje sono due musicisti di formazione jazz: hanno forgiato l'uso dei loro strumenti studiando la lezione free e post-bop dei massimi cervelli americani (il primo, per la verità, applicandosi a uno strumento decisamente inusuale: il violoncello è un po' un cavolo a merenda della musica afroamericana). Non si parla solo di America, in ogni caso, perché l'Olanda vanta una tradizione jazz tutt'altro che secondaria: basti pensare al bandismo divoratore e futurista di un genio come Willem Breuker, fra i massimi musicisti dell'era contemporanea.
Ecco, forse Reijseger si ispira proprio a lui, anche se trasporta il suo eclettismo onnivoro e panstrumentale sul proprio violoncello: il suo arco raccoglie la sfida lanciata dai grandi solisti dell'era post free e vi scova significati nuovi. Abbina un virtuosismo trascendentale a una visione radicale dell'uso delle corde (letteralmente piegate, strappate, virate verso un espressionismo aspro; eppure capaci di sinuosi movimenti melodici, di una dolcezza impareggiabile). Soprattutto, Reijseger riesce a dare respiro, a regalare spazio al radicalismo sonoro del jazz europeo, a volte degenerato in un musica quasi del tutto incommestibile, pervasa da un raziocinio esasperante, poco "godibile". Lo aiuta il pianismo elegante e minimale di Fraanje, che (potrei sbagliare) suona come un incrocio fra le architetture imponenti di Nina Simone e il dolce lirismo di Bill Evans: il suo è un pianoforte ragionato, che sembra spazializzare i suoni, evitando acrobazie fuori luogo.
Naturalmente, il disco vive anche sulla straordinaria capacità narrativa di Sylla Mola, che porta la tradizione afro (giocata sui microtoni, su temi ariosi e arabeggianti, su scansioni ritmiche irregolari) dentro lo spazio aperto dagli altri due solisti: è difficile riconoscere incisi e ritornelli, e forse non ce ne sono, perché Sylla sembra piegare la voce a nuove esigenze, del tutto libere, ma distanti dalle asperità del free jazz, decisamente più primordiali (nel migliore dei sensi possibili). Descrivere la vastità di colori e di toni impressi dal cantate africano è impossibile, è davvero "ballare di architettura": la cosa migliore che possiamo fare è consigliarne caldamente l'ascolto, consigliare di perdersi nel suo fraseggio ondulante e imprevedibile, ora più orientato verso il numero lievemente rauco, ora più dilatato.
Evitiamo il passaggio del track-by-track perché descivere queste eccentriche sinfonie è impresa impossibile. E' meglio riassumere, e riconoscere che dopo numerosi ascolti il punto interrogativo rimane: da che parte stanno andando i musicisti? Questo è jazz o non è jazz? Forse però non è così importante stabilirlo. Forse, questa è solo musica del mondo, raffinata eppure sospinta da pulsioni viscerali, colta eppure primitiva, venata da un forte spiritualismo (cerca lo zen), eppure innegabilmente fisica.
"Count Till Zen" è davvero un disco che tramite il superamento dei generi musicali attraversa il concetto stesso di musica per arrivare al concetto di uomo. E' tanto difficile comprenderlo, maledetti bastardi?
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