R Recensione

7,5/10

Wynton Marsalis

Black Codes (From The Underground)

Wynton Marsalis è figura che divide pubblico e critica da decenni.

Gli argomenti a favore del trombettista di New Orleans sono numerosi e solidi: Wynton è un musicista preparatissimo, ha analizzato in modo approfondito (anche a scolpo divulgativo) musicisti come Ellington, Armstrong, numerosi trombettisti dell'era bop e hard bop. Dal punto di vista tecnico, poi, tanto di cappello: Marsalis è un virtuoso trascendentale. Pulito, preciso, agilissimo sui tempi più veloci ed elegantissimo sui lenti. Marsalis incarna in sostanza la perfezione, e risulta quasi impossibile muovergli qualsiasi critica sul piano puramente formale.

La sua troupe lo segue sui medesimi binari: il fratello Brandon, sassofonista di vaglia, ne riproduce in particolare lo stile pirotecnico sul legno, forte di una purezza stilistica rara e di una conoscenza profonda della letteratura classica dello strumento (lo swing, il bop, il post bop, ma anche la polifonia di New Orleans).

Gli argomenti contro sono tuttavia altrettanto radicati e convincenti. Marsalis possiede un'idea di jazz che nella migliore delle ipotesi si può definire antiquata, nella peggiore puramente oleografica; come se ciò non bastasse, ha imposto la sua concezione a una larga fetta del pubblico, che segue e applaude le sue gesta sin dagli anni '80, e che lo ha elevato ad archetipo del jazz “vero”, senza accorgersi di come il suo rigido conservatorismo rischi di essere creativamente inerte.

Wynton è bravissimo nel riprodurre dinamiche, idee, stilemi propri di quella che considera l'unica età dell'oro della musica jazz, ovvero l'epopea compresa fra New Orleans e il post bop degli anni '50. Per di più, considera il jazz una musica quintessenzialmente afroamericana, e aborrisce tanto gli sconfinamenti nel third stream (da Mingus in poi) quanto la morbidezza concettuale del cool più evoluto (e con lei ogni contributo bianco, europeo od orientale), così come naturalmente il free jazz, la fusion i loro figliocci. Note sono nell'ambiente le sue polemiche a distanza con Miles Davis e Chet Baker, accusati di aver contaminato la purezza della musica che ama, per non parlare del suo noto disprezzo per rock, hip hop e ibridi vari.

Marsalis è un tradizonalista puro e non esita a etichettare come eresie tutte le variazioni che fatica a tollerare, a incasellare dentro un'epoca e uno stile ben precisi. È però anche e soprattutto un tradizionalista straordinario sostto il profilo tecnico e interpretativo, oltre che un compositore di vaglia, il vero maestro del neoclassicismo contemporaneo – che ha tramadanto alle nuove generazioni, con pro e contro, sin da quando ha assunto la direzione del programma jazz al Lincoln Center di New York.

Rivendica posizioni e concetti archiviati dalla storia, ma il sottoscritto lo apprezza nel momento in cui si limita al puro dato musicale, quantomeno quando non si annulla nel calco. “Black Codes (From The Underground)”, pubblicato dalla Columbia nel 1986, è profetico sin dal titolo e materializza pregi e limiti della sua concezione: celebrazione pura della tradizione afroamericana, ma anche capacità di costruire brani tanto eruditi quanto avvincenti e piacevoli.

I quasi dieci minuti della title-track, impreziositi dal duetto fra tromba e sassofono tenore (entrambi di chiara ispirazione post bop e hard bop) rappresentano uno fra i momenti migliori dell'opera, e forse dell'intera carriera di Marsalis. “For Wee Folks” ammorbidisce i toni, ma guarda sempre nella medesima direzione: i due fiati procedono all'unisono, e poi si alternano in due solo carezzevoli e cristallini. Nel finale, in ossequio alle regole de bop, si torna al tema base e all'unisono. I tempi evitano di evaporare così come di diventare troppo serrati: Marsalis è un maestro del registro medio.

La piacevolezza melodica è di casa in tutti i brani (scattante e gradevolissima, in tal senso, è “Delfelayo's Dilemma”), anche nella conclusiva “Blues”, che di fatto è un soliloquio di Marsalis con la tromba: soliloquio che però evita accuratamente le spigolosità e i salti quantici di altri maestri della solitudine (da Braxton a Leo Smith), conservando una purezza stilistica e una leggibilità tali da rapire il grande pubblico.

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