V Video

R Recensione

6,5/10

Ezra Collective

You Can't Steal My Joy

Don’t judge a book by its cover, recita l’adagio, anche se la sorridente istantanea di gruppo in b/n sbandierata sulla cover e il titolo vagamente post-woodstockiano farebbero temere il peggior revival Live Aid possibile. A riequilibrare il pregiudizio, un’informazione essenziale: gli Ezra Collective, che con “You Can’t Steal My Joy” arrivano oggi all’esordio lungo a tre anni dal primissimo vagito dell’EP “Chapter 7”, sono adrenalinica parte attiva di una scena jazz londinese nell’immaginario collettivo sempre più mitica (e mitizzata). Il gruppo giusto al momento giusto, si potrebbe aggiungere, la cui genesi (i membri si sarebbero conosciuti ad una clinic dell’organizzazione educativa e centro di sviluppo Tomorrow’s Warriors) assume peraltro contorni da favola in un mondo che ha imparato a rigettare inclusione e mutuo supporto. Questioni di priorità. Quella degli Ezra Collective parla la lingua dell’unità: transnazionale, confessionale e, naturalmente, stilistica.

Quando si scongela la mai troppo detestata etichetta melting pot, la prima associazione rimanda a colorati crossover in levare di dubbio gusto e di ancor minore specificità qualitativa. La preponderante connotazione negativa spingerebbe a parcellizzare il più possibile l’uso del termine, se non fosse che è alquanto difficile sintetizzare “You Can’t Steal My Joy” in modi diversi da un vero e proprio pentolone di influenze: afrobeat, jazz-hop, piano jazz, be bop, dub, calypso in ordine più o meno decrescente. Il quintetto capitanato dal batterista e percussionista Femi Koleoso non ne fa mistero: il fine ultimo è quello del divertimento, della vibrazione positiva. Per arrivarvi, lungo cinquantaquattro corposi minuti, succede di tutto: si parte con una versione clubby e iperstringata della “Space Is The Place” di sunraiana memoria, si naviga sui bassi suggestivi che introducono il carosello bandistico di “Why You Mad?”, si risentono gli ultimi Sons Of Kemet nel jazzaeton di “Quest For Coin” (James Mollison nuovo Shabaka), si viene cullati dal rasping r’n’b della giovane voce di Jorja Smith (“Reason In Disguise”) e dal denso flow di Loyle Carner (nell’ammaliante “What Am I To Do?”), ci si concede del minutaggio supplementare per esplorare intimi territori cosmic-fusion (il riff di “People Saved” sembra scritto da Kamasi Washington), si cede alla tentazione dell’exotica formato big band (“São Paulo”) e si raddoppia la posta con una scatenata versione tropical-bop del Duke Ellington “orientale” (la title track).

Didascalico e privo di ribaltamenti quanto si vuole, ma il risultato rimane divertente e ben confezionato. A infastidire, qui e lì, è piuttosto la completa mancanza di prospettiva di una scrittura fin troppo disimpegnata, che a tratti si limita semplicemente a fare incetta di luoghi comuni (terribile “Red Whine”) senza curarsi di caratterizzare i singoli episodi, ammonticchiati in un’antologia dallo spessore modesto. Unica eccezione di rilievo, l’elaborata struttura armonica, cesellata dalle intense melodie neoclassiche del piano di Joe Armon-Jones, di una “Philosopher II” che rinuncia per tre minuti e mezzo alla calca e ritrova, nella propria solitudine autocentrata, una nuova identità. Si può essere liberi e felici anche così, nell’incessante fermento creativo di Londra.

V Voti

Nessuno ha ancora votato questo disco. Fallo tu per primo!

C Commenti

Non c'è ancora nessun commento. Scrivi tu il primo!
Effettua l'accesso o registrati per commentare.