GoGo Penguin
A Humdrum Star
Pochissimo e moltissimo quantitativamente e qualitativamente si può dire di A Humdrum Star, quarto disco in studio dei GoGo Penguin (ad appena due anni dal notevole Man Made Object), cui ci si avvicina col timore reverenziale di chi in esso vi riconosce i crismi del capolavoro contemporaneo, del coronamento più alto e perfetto di un percorso artistico originalissimo ed ineguagliato. Un paradosso, forse, visto che nessuno oggi suona come il trio di Manchester, né può ambire a contenderne e limitarne il raggio dazione: o forse è proprio questa radicale impermeabilizzazione alla definibilità, questo suonare sempre e solo come sé stessi a stordire, confondere, in ultima istanza inibire. Giusto per capirci, o forse no: A Humdrum Star, come il precedente capitolo, esce per la prestigiosissima Blue Note, ma starebbe benissimo anche nei cataloghi di Deutsche Grammophon, ECM, persino Hyperdub. Tale è la dialettica compenetrante delle tre maggiori componenti stilistiche il jazz pianistico, la classica, la drumnbass che un purista ammattirebbe al solo pensiero. Ma quando mai i puristi si sono trovati dalla parte giusta della storia?
Qui mi perdonerete se la frase vi riporterà alla memoria ben più ignominiose dichiarazioni a mezzo stampa di queste ore si fa difatti la storia. Si scrive una nuova e splendente pagina nel grande libro degli avvenimenti: ma si persegue, anche, e con ottimi risultati, una narrazione più modesta, tutta interna al disco stesso. Il minimalismo malinconico di unouverture pianistica su cui mugghiano tramontane di bassi (Prayer) è il primo ed introduttivo atto di una maestosa pièce, che si snoda e denuda tra i volteggi jarrettiani del solismo di Chris Illingworth (Raven frattura il neoclassicismo in severe sezioni di breakbeat), si perde in candidi anfratti spaziali (Bardo gira attorno ad unemozionante frase pianistica che mette a contatto Bill Evans e la deep house: superba qui linterazione della sezione ritmica), recupera lontani esotismi armonici e timbrici (A Hundred Moons potrebbe figurare nella tracklist di un Jazz Impressions Of Eurasia: notevole anche lalternate take, che avanza concisa su un discreto rotolare di spazzole) e immerge in una colata sinfonica nervose suggestioni soulish (Transient State). È però la massiccia, costante e dirompente presenza del contrabbasso di Nick Blacka e della batteria di Rob Turner ad impressionare: i due imbrigliano ed aguzzano il lirismo di Illingworth, sballottandolo per dedali da free form e lungo stop&go di micidiale forza esplosiva (Strid è unepifania che in coda si carica di accenti quasi post rock), per poi contrappuntarne cineticamente le trine più drammatiche e tarantolate (Reactor raddoppia in direzione hip hop limpatto della Protest di Man Made Object) e dettare il passo nelle semiballate (le sincopi trip hop nella volatile meditazione mertensiana di Window).
Non un attimo di troppo, non un passo falso: A Humdrum Star pulsa di una luce inestinguibile anche nei suoi recessi più reconditi. Il che, se ci pensate bene, è una chiosa che sul disco dice pochissimo e moltissimo, qualitativamente e quantitativamente.
Tweet